lunedì 18 luglio 2011

sul terrazzo

Ciò che riusciva a scorgere oltre il cornicione, oltre quel muro del terrazzo, erano solo i vapori che salivano per sifoni lucenti e intrecciati a budella da sopra il tetto dell’ospedale. Dietro essi, forse, avrebbe dato retta a qual- che collina e casa, a qualche nuvola e poi al cielo di Roma. Immobile come il suo braccio. Immobile come tutto il resto del corpo su quell’angolo del lavatoio, steso in un piccolo spazio con le spalle incassate tra la grondaia del tetto e il tubo di piombo degli scarichi. Da dietro il grosso oblò di plastica, sulla sala dei condomini, sembrava quasi un angelo con quelle ali in trecce metalliche che salivano in alto. Un braccio inerme e fasciato, la pancia della mano in alto e le dita piegate come una supplica, come un mendicante di speranze ormai morte tre le pieghe degli occhi. Occhi fissi su una vasca blu tra le gambe. Fasciata in pantaloni di fustagno maceri e sporchi. Una tinozza di plastica riempita fino al margine alto di terra concimata a basilico, terra smossa mesi addietro con al centro un piccolo troncone secco senza vita. Aveva il capo pesante, di lato, stondato da recenti fasciature, macchiato di mercurio rosso come la testa di un’enorme radicchio guasto. Avevano affittato per lui un piccolo monolocale all’ulti- mo piano di quel palazzo, proprio davanti al San Camillo, proprio davanti a quegli sbuffi bianchi dei suoi tetti. Sarebbe servito averlo vicino per qualche firma o per portarlo di peso in sala o, peggio, per... Ma lui quella stanza la occupava solo di notte, solo quando un intero giorno di sole o pioggia se lo consumava, immobile, con la vasca tra le gambe, sopra quel terrazzo. Col naso in sù come un contadino che fiutava il temporale lontano. Forse aspettando le ultime esalazioni di Lautan tra i vapori sopra i tetti. “ingegnè come va oggi? me parete un tantino meglio?” era Clelia, bionda fino a qualche mese prima, secca in vita e larga altrove. Sempre stretta in un grembiulino da commessa delle carni, azzurro a strisce bianche che andavano e venivano per dove quel suo corpo si riempiva di forme tonde. Una quarta abbondate, certamente , di un seno bello e intonso su cui mai uomo posò mano. Forse. Aveva i capelli neri in una linea larga al centro della testa, neri come i rattoppi di catrame tut- t’attorno. Dalle radici corvino si dimenavano pezzumi di biondi cordoni ingrassati fin poco sopra le spalle. Il viso inutile a tratti, labbra talmente secche che pareva tagliassero le parole e due occhi bui, incassati dentro al viso come le buche agli angoli di un biliardo. Il filotto lo facevi unendo i nei sulla linea del naso e tra la fronte. “ngegnè vò portato na cotoletta e na mela” disse sistemandogli il collo del maglione, tirandolo in basso fin quasi allo sterno per favorirne la prima abbronzatura. “ve state a fà bello pè st’estate, come un tizzone cò gli occhi blu” aggiunse come se anche in quella triste circostanza potesse provare a cercar marito. Lui girò il capo solo per prendere il piatto che poggiò tra il bordo blu della vasca e l’interno coscia. Clelia veniva a trovarlo non come la sua affittacamere, ma per quella carità cristiana che su quel seno mai ciucciato, tra l’areola sinistra e il crocifisso, si incarnava come una gemma d’ambra di spine e dedizione. Clelia era anche addetta a dare notizie a Fausto Linate, il primario di ostetricia del vicino ospedale. Era lui, il vecchio amico dell’ingegnere, il compagno di classe al liceo, l’astuto capo istituto che gli sfilava le ragazze maturate, dopo i 16, nelle classi inferiori. Fausto non aveva mai avuto assensi scritti dall’amico ma tramite il direttore del nosocomio, in combutta con lui in strane vittorie di appalti per il nuovo lato ovest, era riuscito ad allungare di tre settimane quel filo tenue di speranza, piatto come l’elettroencefalogramma delle due poveracce. Fausto conosceva molto bene la moglie e la piccola Elisa. Conosceva molto bene lei nel profondo, conosce- va i suoi odori intimi, le sue parole romantiche, i suoi vezzi, i suoi vizi e quelle poche virtù che si spartiva col marito. Elisa lo chiamava zio e lui ne era orgoglioso. Lui con alle spalle mezza vita passata a scoparsi hostess ai congressi, a rifiutare le amiche di famiglia e le giovani avanguardie mediche. Clelia, stamattina, aveva chiamato il dottore dicendo che l’ingegnere si era mosso un po’. Aveva segnato una parte di terra vicino al lato della vasca dove posava, senza vita, il braccio. Aveva scritto qualcosa, in quel piccolo lembo di terra concimata sul terrazzo dei lavatoi, sopra il tetto del civico 24, all’incrocio con l’ospedale, nel quartiere nord di una Roma che sbolliva un altro giorno di traffico e malelingue sui volanti. “dottò correte, ha sbiascicato quarche parola ma non ho capito n’cazzo de che ha scritto nella vasca” disse Clelia al cellulare. “s’è messo a fà i disegnini in sta cazzo de vasca tra e gambe, dottò, correte prima che cancella tutto” urlò con il fiato che aveva in gola mentre con la mano sul fianco scrutava dall’alto il piano del reparto di terapia intensiva e l’odore del bucato fresco non le ammorbidiva affatto i pensieri tristi. Fausto si fece le otto rampe in un boccone, imboccava i gradini due a due, li divorava con l’ansia che gli faceva da umettante nella bocca e che rendeva quella giornata, che poteva essere un dramma, l’ultimo pasto dolente sotto ai denti. Salì le scale degli appartamenti e si fermò come per prender fiato. Ma si fermò solo per immaginare come, l’amico, avrebbe potuto scrivere sulla terra quelle parole che si aspettava da settimane. Sarebbero state leggibili tanto da liberare la sua coscienza o sarebbero state oggetto di interpretazione da parte sua e di Clelia? Si sarebbero messi a sindacare su ciò che quelle lettere o parole significassero, attorno a quel piantone secco nella terra?. E se lui si fosse semplicemente alzato da quell’angolo e avesse parlato? Mise il piede su un gradino come per salire ma in realtà sapeva quanto l’amico fosse testardo e duro nelle sue volontà di nascondersi sotto al mondo. Come quando lo trovava steso a terra nello stanzino del bidello a farsi d’erba. Sapeva quanto lui fosse capace a esacerbare quei suoi torpori che lo avevano allontanato dalla moglie. Salì il resto delle scale con lo sgomento di chi avrebbe dovuto decidere per suo conto. Chiudendo una storia finita male con quello schianto sul raccordo che si è inghiottito tutto, lasciando al fondo un cuore, un cuore malato e cattivo. Aprì la porta in legno del ballatoio e poi quella in metallo sopra il tetto, scostò dal viso e dai capelli di nylon le tende a costine di cellofan trasparente e lo vide a terra, in quel suo angolo, tra due piatti di plastica e quella vasca. Faceva rabbia per come si era ridotto, come un cane raccolto per strada, con quel po’ di acqua sporca dentro a un bicchiere di vetro a palle colorate e quei mozziconi sbilenchi di fettina panata e le bucce di mela. Si avvicinò accucciandosi con premura, spostando Clelia con forza e ringraziandola per il pasto. “puoi andare Clelia, ci penso io a lui” disse balbettando. “dottò tiramolo su almeno” rispose Clelia con la sua solita premura. “no, vai pure e lasciami solo con lui per un po’” Sapeva quanto fosse sfiancante dover aspettare le sue risposte senza fiato, quelle parole che non prende- vano corpo perché vuote di ogni suono e significato. Ma forse ora aveva scritto sulla terra e sarebbe stato più facile spegnere tutto. L’ansia aveva inghiottito i suoi occhi, li aveva succhiati dentro al cranio così in fondo che per guardare sopra quella vasca le pupille dovevano aggrapparsi ai bordi ossuti degli zigomi. Chiuse per un attimo le palpebre e i pensieri tutti, come per prender fiato con la visione. Li aprì e vide che sotto al moncone della vecchia pianta aveva scritto qualcosa che lo scagionava anche quel giorno. L’amico gli aveva regalato ancora un giorno, gli aveva concesso ancora ore da uomo e non da omicida. Si alzò senza voltarsi, senza guardarlo o sorridergli, si alzò senza toccarlo o spiargli lo sguardo. Si lasciò carezzare il viso dal bucato bianco, candito dal profumo di una Roma bellissima quel giorno e si fermò a guardare a sud oltre il cornicione. Il cielo vivo sopra alle cupole e ai giardini. “lasciale andare”, “lasciale andare” aveva letto ... e dovette pescare in quel suo profondo e torbido odio per la vita, lui medico di nascituri, per poter intendere, tra quelle parole scritte a terra dall’amico, la supplica sua a non fottersi ancora la moglie e la famiglia. E non altro. Non lo guardò neanche e ridiscese le scale ticchettando con l’indice sul passamano di metallo col ritmo di quei due cuori ancora appesi.

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