lunedì 18 luglio 2011

Sciacca Salvatore

Scritta a lettere fitte e minute lungo una striscia sottile di carta rollata, in mezzo a mille altre sul tavolo, quella che segue è la lista di ingredienti della cena di due sere fa. La sera in cui cercai di abbonirmi il maresciallo Sciacca Salvatore: - un kg di scilatelli a doppio avvolgimento in farina di grano duro - 4 litri di ragù calabrese con tocchi di carne attaccata all’osso - 2 enormi bistecche sollazzate da patate della Sila tra piloni di enormi cornioli rossi e roventi - 5 salsicce di grosso calibro che avrebbero rallegrato le notti di ogni femmina in paese - un fiasco di vino d’uva rossa misto ad altro d’uva brunè con pizzico di sambuca - pane in cassetta, di due liste da tre che era anche piena di pitte e filoni. Erano le 20:34 di una sera nello sprofondo. Ci guardavano tra il collo morello del fiasco e la bottiglia di lavatura d’acqua in plastica che nessuno avrebbe toccato. L’avrei dovuto stordire col vino e quasi ucciderlo coi grassi per poi farmi dire a che punto erano le indagini. Aveva dei baffi densi e corpulenti che scendevano in basso a due enormi narici, giardini pensili di peli che avevano radici sotto all’amigdala. Ai lati di quei mazzi fibrosi e neri come scarpe due enormi palle di pelle per guance, tanto tese da strizzare gli occhietti impercettivi in lacrime stillate sotto alle arcate di una fronte spaziosa e lucida, grassa fin dietro alle spalle. Quella sera aveva il cappello d’ordinanza e non vidi altro. Aggiungo anche che il maresciallo era una fogna d’uomo, un prodigio della natura. Una discarica il cui cielo si era chiuso nel 37, sotto a quel pezzo di stoffa con su la fiamma dell’arma. Sembrava che decine di secoli di evoluzione avessero dato vita al suo corpo. In paese si diceva che al posto del piloro avesse degli ingranaggi servoassistiti che riuscivano a sminuzzare qualsiasi cosa si trovasse in carte da alimenti. Alcune vecchie trascrizioni negli atti della caserma, riportavano che le pareti del suo addome erano a doppio strato antiperforamento con camera d’aria negli interstizi. Come i giubbotti d’ordinanza o... che forse ne avesse ingoiato uno e fatto proprio come si annettono a se i funghi ai bordi delle latrine? Il tessuto sarebbe stato composto da un particolare collagene resistente agli acidi con piccole ghiandole di secrezione autolubrificanti; sembra fossero state capaci di secernere un liquido antiacido e antibatterico. Il vantaggio di un simile sistema era indiscutibile, ma il liquido aveva un odore acre, forte e comportava enormi e nebulose flatulenze. Quella sera, però, avevo allestito sotto al suo culo una sedia fonoassorbente in legno con due strati di cucini, uno in gomma piuma e uno in piume di gallo morto per sbaglio. Comunque... L’intero sacco digerente era trattenuto, tra le pareti del crasso e della pleura, mediante cavi antistrappo con frizione antisaltellamento. I cavi si attaccavano in modo vicinale a piccole placche di titanio perforato e alleggerito e in modo distale a ganci di 3 pollici con trattamento antiruggine. Il sistema basculante permetteva al maresciallo Sciacca Salvatore di muoversi con perfetta e inusita leggerezza senza che il suo enorme ventre si strappasse a terra. Ma la perfezione era nella parte bassa dei suoi meccanismi. Anche i due appuntati Venturi e Scalia ne erano a conoscenza. La valvola che collegava lo stomaco al crasso era dotata dello stesso ingranaggio del piloro, ma questa volta i dentini erano più piccoli, minuti e serrati per sminuzzare il cibo ancora più efficacemente e trasformarlo in merda a passo fine 0.08 micron. Tanto fine che poteva sembrare pappetta di neonati... o di neonata se si scambiavano gli acini d’uva a piccoli occhietti neri. Dopo questo secondo ingranaggio l’ultimo elemento dello stomaco era un minuscolo sensore a forma di ventre di papera che aveva lo scopo di fornire miliardi di informazioni al secondo a quel piccolo cervello che stava sotto la pelata. Informazioni che riguardavano la temperatura, la consistenza, il passo, la densità, l’olezzo, la tensione superficiale (perchè la schiumetta aveva la sua importanza), la grana, il colore e altre decine di variabili dell’escreto. Questo sensore teneva sotto controllo lo stato dell’ammasso putrescente che doveva, ogni volta, inondare il crasso e se una qualsiasi di queste variabili era fuori standard - la commissione di controllo risiede ancora a Lamezia - la valvola mandava delle piccole scariche elettriche sulle placche motrici dell’intestino sotto forma di pirofosfato di sodio spremendo quest’ultimo come un grosso culo in mano ad un calabrese arrapato; a questo punto l’impasto risaliva in su per lo stomaco per finire in bocca del maresciallo Sciacca Salvatore che riiniziava il ciclo. Se vi capitava di vedere il maresciallo Sciacca Salvatore masticare di continuo, ruminare come una vacca al pascolo davanti alla camionetta non era perchè lo stato avesse fornito l’arma di auricolari ma per via della commissione di Lamezia che, a quei tempi, non raggiungeva mai il quorum. Erano le 20:45 e avrei dovuto stordirlo col vino e quasi ucciderlo coi grassi per farmi dire di Tano e dell’altro mio fratello Toni con la “i”, ma il maresciallo Sciacca Salvatore quella sciagurata sera sembrava avesse il bolo in bocca. Sembrava ruminasse ancora per una merenda in trecce e provole al pascolo di don Nino. “Pinu, nun manju stasira, mi sentu... mmhh.. comu dira... nu pocu ushatu” “ senti, tocca, toccame u codhu... mò mò i provuli marrivanu ari ricchi” “dimmi pecchì mi hacisti veniri?” “u sai ca...” “chi cazzu fai Pi......” Il fumo bianco, caldo, crespato di piombo salì verso il cono di luce del lampdario tra il fiasco di vino e l’acqua, sopra quei piatti, al centro di una cucina buia senza finestre, sotto sette metri di terra, tra le assi di una vecchia stalla, in bocca a un lungo cunicolo che portava al paese.

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