- Una bambina diafana con capelli lunghi e lisci davanti il viso e sulle spalle, in vestaglia bianca (candida) sotto uno spot e tutto attorno il buio della scena -
C'era quella consueta, piccola madonna color lavanda nella teca di mattoni in ceramica. Un buco di gazebo con il tetto in legno, fiori secchi sopra quel viso casto e stondato da carità cristiane. Era stata piazzata lì assieme ai palazzi, assieme al cancello e ai due soli alberi di pero in mezzo allo spazio condominiale. Vi erano due box lavanda per lavatoi, tre panchine e niente altro.
Gli edifici circondavano quel giardino come grosse piantane, piantate a terra, senza terrazzi.
La pioggia gonfiava nuvole immense.
Lungo il profilo della torre 4, nel condominio 103 del quartiere Alessandrino, un corpo era caduto sopra il cemento. Lo schianto fu cupo, come una busta di latte sbollito... e lo stesso fu per la testa del signor Ugo Mestrini o di quel che ne restava. Il corpo giaceva a terra in un avanzo decomposto tanto avanzato che la puzza che era per l'aria, dopo essersi aperto, era indicibile. Era come se avessero buttato giù dalla finestra un morto al suo primo mesiversario. Era come se lo avessero tenuto in casa prima di gettarlo via.
Maria e la figlia Tina, con le tette schiacciate sul passamano, senza una lacrima, senza un grido di strazio. I loro folti e lunghi capelli ciondolavano oltre lo sguardo gonfio ed esse fissavano i resti dell'uomo come si guarda lo sciacquone dopo una colica. E lo stesso era anche il pensiero, se tutta quella merda si sarebbe potuta levar via con l'acqua.
Il corpo bolliva a terra e nemmeno un pianto, né una litania. Ci avrebbe pensato il cielo del quartiere a piangere per settimane.
Il viso di quella madonna intonso dentro la piccola teca di sampietrini, laccati come un bidè.
Quella mattina non uscí di casa, le amichette aspettavano al centro ma le mie cose mi aprivano in due la pancia e l'odore di ferro tra le cosce mi faceva trasalire come un incanto. Quell'odore di sangue tra le gambe e il povero, signor Ugo Mestrini che gocciava plasma sciolto in rigagnoli fino alle grate delle cantine.
Era come se il palazzo lo avesse rigettato come un dente marcio e poi ribevuto per ingrassare le radici di quel suo alto fusto di cemento e finestre. Senza terrazzi.
Ricordo ancora il vestitino di quel giorno, viola, gli stivali neri coi lacci a X e il trucco bianco spalmato sopra i miei occhioni blu. Ero carina e fu la prima volta che ne vidi uno, uno di quei morti insomma, la prima volta che accadde nel nostro condominio e nessuno ebbe più pace.
Quella mattina mi aspettavano al centro ed era la prima volta che sentivo quell'odore di sangue tra le gambe. E mamma mia mi chiuse in camera.
Quella mattina divenni donna. Tra quelle fottute coliche mi sentivo come un lavello intasato, ma ero donna.
- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è a terra, seduta e scosciata, in vestaglia bianca (un pò sporca) e capelli lisci a nascondere il viso -
Ricordo che pioveva da mesi, come se la città dovesse lavarsi colpe e annegare. Lungo la via, fuori i cancelli del Verano, le auto accollate su due file. Non esistevano più regole, ne scritte ne dette o urlate. Dentro una buca stavano calando Mario Onofri. La cassa semplice, due croci di ottone, come se una non fosse abbastanza e due giri di una grossa catena a serrare per sempre il poveraccio in un sonno che tardava ad arrivare. Anche quel giorno nessun pianto. Lo strazio, invece, era ritornare a casa con quella pioggia, le auto sul raccordo e la cena da scaldare.
Io ero lì con mamma. Aveva lavorato per il signor Mario tutta una vita, tutta la vita sua, prima di madre e poi di disperata. Era il mese di gennaio e aveva già perso il marito, mio padre, e non per quell'incubo che t'appesta casa e i bellissimi vestitini miei. Un semplice schianto sull'Aurelia. E faceva incazzare che mentre tutti morivano come bestie mio padre si fosse schiantato contro un camper in sosta. O forse era meglio così, che quel povero cristo si fosse risparmiato sto schifo... e quello a venire
Quel giorno, dopo il funerale, accompagnai mamma, quell'angelo di mamma mia per i negozi del quartiere. Cercava un corredino per mio fratello. Non voleva che chiudessimo in cassa anche lui con quella stessa povertà ostentata dalle figlie di Mario.
"nun se pó vede na cosa der genere fijia mia, na vita de fatiche e quer pover'omo stava coi fiori de du sordi, de du guorni forse e na cassa che manco li cani fijia mia"
Non disse altro quel giorno, ma mi rimase in testa quel "manco li cani".
Questo eravamo noi, niente altro che cani, bavosi ma sempre cani... E chi non era colpito da quella rabbia non viveva piú o si nascondeva in casa. C'era solo da augurarsi di sopravvivere ai figli per ricordarli qualche altro mese. Seppellirli vivi, prima che diventassero buste di frattaglie o bestie. E allora ci si preparava al fattaccio andando al mercato a cercare vestiti con cui crepare da principi.
Quella mattina, dopo Mario, salimmo su per il rione fino al mercato di via dei Gelsi. Lì mamma, davanti na bancarella di cravatte mi disse di che saremmo morti tutti, di che sarebbe crepata Roma. Quelle cravatte erano appese a fili come filetti a seccare e lì mi disse di quella brutta cosa, di quel male che colpiva tutti "li poveri e li ricchi" senza distinzione.
Lì mentre si faceva scivolare cravatte tra l'indice e il pollice per tastarne il tessuto, mi disse che non ci saremmo salvati e che prima di morire saremmo diventati bestie. Come quei cani dei giardinetti. Ricordo che non mi guardava nemmeno, fissa su quelle cazzo di cravatte mi stava dicendo che non avrei avuto il tempo di un amore, nemmeno il tempo di una scopata.
- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è seduta e scosciata sopra il davanzale della finestra (lato destro). In vestaglia bianca (più sporca) e capelli sul viso guarda fuori e ricorda -
Due finestre sopra quella dei Mestrini, all'ultimo piano, sotto una copertura in eternit, vi era una famiglia di cinesi. Sette piccoli nani gialli dagli occhi tirati ai lati e dal sorriso cavato e a tratti guasto. Da anni allevavano piccioni in delle gabbie un metro per un metro appese sotto alle finestre proprio dove gli altri tenevano i condizionatori. Avevano messo su un piccolo consorzio di volatili cresciuti a pane e scorze, piccoli sorci con le ali che poi vendevano ai connazionali del quartiere. Vi era un assiduo e silenzioso traffico per le scale di decine di omuncoli che salivano fino in su a comprare piccioni e uova.
Quelle gabbie stavano lì, appese, da anni, sempre piene come grappoli di acini con le piume.
Sembravano enormi sacche brulicanti che puzzavano e spruzzavano merda ai lati e lungo tutta la facciata del palazzo. E forse erano sette gli anni che durò quello spaccio di uccelli, fino a che una mattina, una bellissima mattina senza sole li vidi volare via. Era uno spettacolo. Vi erano tre gabbie, una per ogni finestra e per ognuna dei piccoli cinesi appesi sul davanzale che tiravano delle corde per aprirle. E quei piccioni si levavano in volo come nuvole bianche. Era come stare a una festa, una cresima o un battesimo. Come mille palloncini si levarono assieme, lasciarono quel cesso di palazzo e lasciarono Roma per i castelli.
Erano passate due settima da che rimasi rinchiusa in camera. Non mi lamentavo però. Mamma mia mi passava da mangiare la mattina presto, quando dormivo. Apriva la porta, poggiava i piatti a terra, vicino l'armadio e richiudeva a chiave la serratura e la porta con la catena. Ma non potevo lamentarmi, mamma mia cucinava bene. Come una cuoca dei ristoranti del centro.
- Si spegne lo spot e si riaccende. La bimba è seduta e scosciata sopra il davanzale della finestra (lato sinistro). In vestaglia bianca (sempre più sporca) e capelli sul viso guarda fuori e ricorda -
Non ricordo da quanto ormai ero chiusa in camera che una notte mi svegliai per il rumore di ferraglia proveniente dal palazzo davanti. Si sa che i cinesi non fanno nulla alla luce del sole, e al buio di quella notte scorsi poco e non potei capire. Avevano aperto quelle grosse gabbie dopo averle fissate con catene agli stipiti delle finestre e fu uno schifo. Al pigolio degli uccelli eravamo abituati cazzo. Ma questo era troppo.
Al mattino successivo il sole sembrò sorgere come sempre. Per cazzi suoi come al solito... e quel giorno le gabbie erano coperte da vestaglie bianche e dentro lievi latrati come se si fossero dedicati all'allevamento di un'altra specie di volatili. Si diceva fagiani o anche struzzi nani, ma soffiavano, sembravano rumori di sputi sfilati ai lati di becchi stretti.
Si alternarono i giorni con le notti, e quelle gabbie si gonfiavano come il lievito per il pane, come le torte con otto uova di mamma mia.
Non erano più gabbie ma grossi palloni imbustati, strappati dalle viti nei muri e tenuti sù solo per le catene agli stipiti delle finestre.
Erano tre ma fossero stati due potevano sembrare quei grossi coglioni pelosi fuori dai circhi. Forse di cavalli coi lustrini o di elefanti con papillon.
Che forse quei cazzi di cinesi avessero tirato su un allevamento di strane specie circensi?
- Si spegne lo spot e si riaccende. La bimba è appoggiata con la spalla al lato destro della finestra. In vestaglia bianca (sempre più sporca tra le cosce). Capelli sul viso guarda fuori e parla -
Ma quanto cazzo cacavano quei pallouccelli, così li chiamavo ormai. Versavano giù, lungo le pareti alte del palazzo, miliolitri di liquami come polpette al sugo. E i filoni di sterco ormai gocciavano come crema fino a un enorme pilone nel giardino dei Trombetta. Una gran cattedrale di escreti al centro di un giardino curato come un camposanto.
Ma il vento non mancava mai all'Alessandrino come se la municipale lo avesse assoldato per levar via la puzza dei morti del quartiere.
Me lo immagino... Signor Tiro Vento, della municipale, netturbino e soffio da ponente fino alla nettunense per spingere la puzza di Roma fino a Latina.
E un mattino il signor Tiro era più forte del solito più forte dei lacci con cui quei teli sulle gabbie celavano quei soffioni ormai grossi come tromboni sfiatati.
Quella mattina sopra quella cazzo di teca della madonna il vento tornò più forte, saliva in vortici lungo il rasato in calce della facciata, sfiorava stendini e panni stesi, girava girandole e carezzava pergole di buganville fino a sollevare dal basso, come una carezza, quelle sottovesti sopra le gabbie.
- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è al centro del palco, in vestaglia grigia (con rivoli di sporco dalle gambe) e capelli lisci e arruffati a nascondere il viso-
E fu allora che scoprì che dentro le gabbie quei cazzi di nani gialli avevano rinchiuso i ragazzini, ormai morti, gonfi come quei meloni che a fine estate si spaccano al sole e sanno d'acido. Erano sopravvissuti per giorni e erano loro a soffiare, erano le loro dita tra le maglie delle gabbie a raspare quelle vestaglie come becchi di quaglie. E ricordo che mi misi a urlare.
Urlai forte non come si fa allo stadio ma come si fa ai funerali per compiacenza, gridai e imprecai i santi e quella madonna che stava lì sotto al centro del giardino. Furono bestemmie e latrati, furono parole sacrileghe e leziose. Oltraggiai Dio e suo figlio con tutta l'aria che avevo in petto, raccolsi tutti i beati che ricordavo e li nominai ognuno, uno dietro l'altro, tra risa isteriche e accidenti.
Poi feci incetta dei santi che divisi in base al sesso, alla devozione, castità e nazionalità. Tutti assieme finirono, uno per uno a essere maledetti, ingiuriati, offesi, rinnegati... e corsi alla porta e pregai mamma invece, che mi aprisse e mi facesse uscire. Battevo le mani con forza e non mi apriva, grattavo così forte che mi saltarono le capsule smaltate dalle unghie e poi le unghie... Ma non mi apriva.
Chiamai mamma per ore, forse di più. Raspai la porta fino a che consumai la carne sulle dita e i graffi divennero un martellare incessante, regolare, sfiancante di ossa.
- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è seduta dietro una porta al centro del palco, in vestaglia grigia (con rivoli di sangue dalle gambe). Ha le unghie rotte e la mani perdono sangue. I capelli lisci e arruffati a nascondere il viso.-
Ormai non grattavo più ma lasciavo scivolare l'osso delle dita lungo le assi della porta, come se pettinassi lo stipite, come se quell'asse di legno fossero i lunghi capelli neri di mamma mia.
Caduta a terrà con le ginocchia, piangevo, ingoiavo lacrime, respiravo appena tanto che mi si era aperto il petto e mamma mia non sentiva.
Per giorni stetti li seduta dietro la porta, con la finestra davanti e quei palloni nella gabbie. Ormai erano grossi frutti canditi.
E si erano alternati i giorni, i pari con quelli dispari e nemmeno domenica mamma mia mi aprì. Nè quella domenica ne tutte quelle che non ricordai. Non vi furono giorni che non fossero uguali agli altri. Seduta a quella porta, dietro il profilo della finestra vi erano bellissimi fiori infestanti nati sopra quei cesti di carne macera. Erano di un viola intenso come certi miei vestitini. Mi feci forza sulle ossa e mi avvicinai alla finestra scortata da una luce rosata di un mattino come tanti. Mi affacciai e c'era quella consueta, piccola madonna color lavanda nella teca di mattoni in ceramica. Un buco di gazebo con il tetto in legno, fiori secchi sopra quel viso casto e stondato da carità cristiane. Era stata piazzata lì assieme ai palazzi, assieme al cancello e ai due soli alberi di pero ormai secchi in mezzo allo spazio condominiale. Vidi uno storno di piccioni tornare dai castelli, comparvero dall'ambrata e tenua luce di quell'alba, tanto bella da potermi far battere il cuore. Ne avessi avuto uno.
Scorsi lontano i fianchi del raccordo deserto e, prima di rimettere in fila i santi e maledirli, mi accorsi che ormai Roma era morta.
- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è al centro del palco. Ha la vestina lacera e sporca. Ha le unghie rotte e la mani perdono sangue. I capelli lisci e arruffati ai lati delle orecchie e ha un viso di un morto, al suo primo mesiversario -