domenica 21 agosto 2011

Sud

É il modo, un pó a cazzo, con cui il sole si abbatte su costoni, sterpi, su sterrati aridi e avidi d'acqua.
Quel modo affranto con cui la luce ti cade addosso malgrado l'ora e le migliaia successive da passare in bar di baracche e latte per insegne.
Sud é il modo storto con cui la gente ti guarda, un pó a cazzo, prima di decidere se piantarti nel petto un fendente o un sorriso.
É il modo indisposto con cui gli alberi coprono colline e montagne, muri di pietra e lampioni, il modo che hanno di mischiarsi a cazzo alla brezza dei rigagnoli e al fragore dei tonfi dei turisti sui cristalli d'acqua nelle stagioni estive.
Sud é quell'asmatica maniera delle case, scarnate, snervate, coi mattoni in fiore e i ferri come antenne di locuste a equo canone. Divise a cazzo con cinte e sequele di puntelli da geometri serali.
É quel sonno violento in cui ricade ogni notte steso sopra i giorni di ognuno, quel torpore d'ansia di mamme che aspettano ai cancelli ferrati ai margini di chiuse aperte al delirio delinquente di faide.
É il color lampone di lampare in mare come luccichi di bombe brillate sotto strade a macchine d'eroi in lampi di allampanati fragori infranti.
É il modo un pó a cazzo di prendere in prestito l'aria fritta delle feste, di santi patronali padroni di comuni dentro ai monti e alle pance di spiagge che san di sale e chiappe di Milano.
É quel tintinnio aspirato di sillabe e dittonghi lungo le vie di parabole che non portano a un cazzo, discorsi persi e fiabe antiche di casellanti notturni dentro treni spenti.
É la mia terra e un pó il mio modo... A cazzo.

domenica 7 agosto 2011

Alessandrino's girl

- Una bambina diafana con capelli lunghi e lisci davanti il viso e sulle spalle, in vestaglia bianca (candida) sotto uno spot e tutto attorno il buio della scena -

C'era quella consueta, piccola madonna color lavanda nella teca di mattoni in ceramica. Un buco di gazebo con il tetto in legno, fiori secchi sopra quel viso casto e stondato da carità cristiane. Era stata piazzata lì assieme ai palazzi, assieme al cancello e ai due soli alberi di pero in mezzo allo spazio condominiale. Vi erano due box lavanda per lavatoi, tre panchine e niente altro.
Gli edifici circondavano quel giardino come grosse piantane, piantate a terra, senza terrazzi.
La pioggia gonfiava nuvole immense.
Lungo il profilo della torre 4, nel condominio 103 del quartiere Alessandrino, un corpo era caduto sopra il cemento. Lo schianto fu cupo, come una busta di latte sbollito... e lo stesso fu per la testa del signor Ugo Mestrini o di quel che ne restava. Il corpo giaceva a terra in un avanzo decomposto tanto avanzato che la puzza che era per l'aria, dopo essersi aperto, era indicibile. Era come se avessero buttato giù dalla finestra un morto al suo primo mesiversario. Era come se lo avessero tenuto in casa prima di gettarlo via.
Maria e la figlia Tina, con le tette schiacciate sul passamano, senza una lacrima, senza un grido di strazio. I loro folti e lunghi capelli ciondolavano oltre lo sguardo gonfio ed esse fissavano i resti dell'uomo come si guarda lo sciacquone dopo una colica. E lo stesso era anche il pensiero, se tutta quella merda si sarebbe potuta levar via con l'acqua.
Il corpo bolliva a terra e nemmeno un pianto, né una litania. Ci avrebbe pensato il cielo del quartiere a piangere per settimane.
Il viso di quella madonna intonso dentro la piccola teca di sampietrini, laccati come un bidè.
Quella mattina non uscí di casa, le amichette aspettavano al centro ma le mie cose mi aprivano in due la pancia e l'odore di ferro tra le cosce mi faceva trasalire come un incanto. Quell'odore di sangue tra le gambe e il povero, signor Ugo Mestrini che gocciava plasma sciolto in rigagnoli fino alle grate delle cantine.
Era come se il palazzo lo avesse rigettato come un dente marcio e poi ribevuto per ingrassare le radici di quel suo alto fusto di cemento e finestre. Senza terrazzi.
Ricordo ancora il vestitino di quel giorno, viola, gli stivali neri coi lacci a X e il trucco bianco spalmato sopra i miei occhioni blu. Ero carina e fu la prima volta che ne vidi uno, uno di quei morti insomma, la prima volta che accadde nel nostro condominio e nessuno ebbe più pace.
Quella mattina mi aspettavano al centro ed era la prima volta che sentivo quell'odore di sangue tra le gambe. E mamma mia mi chiuse in camera.
Quella mattina divenni donna. Tra quelle fottute coliche mi sentivo come un lavello intasato, ma ero donna.

- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è a terra, seduta e scosciata, in vestaglia bianca (un pò sporca) e capelli lisci a nascondere il viso -

Ricordo che pioveva da mesi, come se la città dovesse lavarsi colpe e annegare. Lungo la via, fuori i cancelli del Verano, le auto accollate su due file. Non esistevano più regole, ne scritte ne dette o urlate. Dentro una buca stavano calando Mario Onofri. La cassa semplice, due croci di ottone, come se una non fosse abbastanza e due giri di una grossa catena a serrare per sempre il poveraccio in un sonno che tardava ad arrivare. Anche quel giorno nessun pianto. Lo strazio, invece, era ritornare a casa con quella pioggia, le auto sul raccordo e la cena da scaldare.
Io ero lì con mamma. Aveva lavorato per il signor Mario tutta una vita, tutta la vita sua, prima di madre e poi di disperata. Era il mese di gennaio e aveva già perso il marito, mio padre, e non per quell'incubo che t'appesta casa e i bellissimi vestitini miei. Un semplice schianto sull'Aurelia. E faceva incazzare che mentre tutti morivano come bestie mio padre si fosse schiantato contro un camper in sosta. O forse era meglio così, che quel povero cristo si fosse risparmiato sto schifo... e quello a venire
Quel giorno, dopo il funerale, accompagnai mamma, quell'angelo di mamma mia per i negozi del quartiere. Cercava un corredino per mio fratello. Non voleva che chiudessimo in cassa anche lui con quella stessa povertà ostentata dalle figlie di Mario.
"nun se pó vede na cosa der genere fijia mia, na vita de fatiche e quer pover'omo stava coi fiori de du sordi, de du guorni forse e na cassa che manco li cani fijia mia"
Non disse altro quel giorno, ma mi rimase in testa quel "manco li cani".
Questo eravamo noi, niente altro che cani, bavosi ma sempre cani... E chi non era colpito da quella rabbia non viveva piú o si nascondeva in casa. C'era solo da augurarsi di sopravvivere ai figli per ricordarli qualche altro mese. Seppellirli vivi, prima che diventassero buste di frattaglie o bestie. E allora ci si preparava al fattaccio andando al mercato a cercare vestiti con cui crepare da principi.
Quella mattina, dopo Mario, salimmo su per il rione fino al mercato di via dei Gelsi. Lì mamma, davanti na bancarella di cravatte mi disse di che saremmo morti tutti, di che sarebbe crepata Roma. Quelle cravatte erano appese a fili come filetti a seccare e lì mi disse di quella brutta cosa, di quel male che colpiva tutti "li poveri e li ricchi" senza distinzione.
Lì mentre si faceva scivolare cravatte tra l'indice e il pollice per tastarne il tessuto, mi disse che non ci saremmo salvati e che prima di morire saremmo diventati bestie. Come quei cani dei giardinetti. Ricordo che non mi guardava nemmeno, fissa su quelle cazzo di cravatte mi stava dicendo che non avrei avuto il tempo di un amore, nemmeno il tempo di una scopata.

- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è seduta e scosciata sopra il davanzale della finestra (lato destro). In vestaglia bianca (più sporca) e capelli sul viso guarda fuori e ricorda -

Due finestre sopra quella dei Mestrini, all'ultimo piano, sotto una copertura in eternit, vi era una famiglia di cinesi. Sette piccoli nani gialli dagli occhi tirati ai lati e dal sorriso cavato e a tratti guasto. Da anni allevavano piccioni in delle gabbie un metro per un metro appese sotto alle finestre proprio dove gli altri tenevano i condizionatori. Avevano messo su un piccolo consorzio di volatili cresciuti a pane e scorze, piccoli sorci con le ali che poi vendevano ai connazionali del quartiere. Vi era un assiduo e silenzioso traffico per le scale di decine di omuncoli che salivano fino in su a comprare piccioni e uova.
Quelle gabbie stavano lì, appese, da anni, sempre piene come grappoli di acini con le piume.
Sembravano enormi sacche brulicanti che puzzavano e spruzzavano merda ai lati e lungo tutta la facciata del palazzo. E forse erano sette gli anni che durò quello spaccio di uccelli, fino a che una mattina, una bellissima mattina senza sole li vidi volare via. Era uno spettacolo. Vi erano tre gabbie, una per ogni finestra e per ognuna dei piccoli cinesi appesi sul davanzale che tiravano delle corde per aprirle. E quei piccioni si levavano in volo come nuvole bianche. Era come stare a una festa, una cresima o un battesimo. Come mille palloncini si levarono assieme, lasciarono quel cesso di palazzo e lasciarono Roma per i castelli.
Erano passate due settima da che rimasi rinchiusa in camera. Non mi lamentavo però. Mamma mia mi passava da mangiare la mattina presto, quando dormivo. Apriva la porta, poggiava i piatti a terra, vicino l'armadio e richiudeva a chiave la serratura e la porta con la catena. Ma non potevo lamentarmi, mamma mia cucinava bene. Come una cuoca dei ristoranti del centro.

- Si spegne lo spot e si riaccende. La bimba è seduta e scosciata sopra il davanzale della finestra (lato sinistro). In vestaglia bianca (sempre più sporca) e capelli sul viso guarda fuori e ricorda -

Non ricordo da quanto ormai ero chiusa in camera che una notte mi svegliai per il rumore di ferraglia proveniente dal palazzo davanti. Si sa che i cinesi non fanno nulla alla luce del sole, e al buio di quella notte scorsi poco e non potei capire. Avevano aperto quelle grosse gabbie dopo averle fissate con catene agli stipiti delle finestre e fu uno schifo. Al pigolio degli uccelli eravamo abituati cazzo. Ma questo era troppo.
Al mattino successivo il sole sembrò sorgere come sempre. Per cazzi suoi come al solito... e quel giorno le gabbie erano coperte da vestaglie bianche e dentro lievi latrati come se si fossero dedicati all'allevamento di un'altra specie di volatili. Si diceva fagiani o anche struzzi nani, ma soffiavano, sembravano rumori di sputi sfilati ai lati di becchi stretti.
Si alternarono i giorni con le notti, e quelle gabbie si gonfiavano come il lievito per il pane, come le torte con otto uova di mamma mia.
Non erano più gabbie ma grossi palloni imbustati, strappati dalle viti nei muri e tenuti sù solo per le catene agli stipiti delle finestre.
Erano tre ma fossero stati due potevano sembrare quei grossi coglioni pelosi fuori dai circhi. Forse di cavalli coi lustrini o di elefanti con papillon.
Che forse quei cazzi di cinesi avessero tirato su un allevamento di strane specie circensi?

- Si spegne lo spot e si riaccende. La bimba è appoggiata con la spalla al lato destro della finestra. In vestaglia bianca (sempre più sporca tra le cosce). Capelli sul viso guarda fuori e parla -

Ma quanto cazzo cacavano quei pallouccelli, così li chiamavo ormai. Versavano giù, lungo le pareti alte del palazzo, miliolitri di liquami come polpette al sugo. E i filoni di sterco ormai gocciavano come crema fino a un enorme pilone nel giardino dei Trombetta. Una gran cattedrale di escreti al centro di un giardino curato come un camposanto.
Ma il vento non mancava mai all'Alessandrino come se la municipale lo avesse assoldato per levar via la puzza dei morti del quartiere.
Me lo immagino... Signor Tiro Vento, della municipale, netturbino e soffio da ponente fino alla nettunense per spingere la puzza di Roma fino a Latina.
E un mattino il signor Tiro era più forte del solito più forte dei lacci con cui quei teli sulle gabbie celavano quei soffioni ormai grossi come tromboni sfiatati.
Quella mattina sopra quella cazzo di teca della madonna il vento tornò più forte, saliva in vortici lungo il rasato in calce della facciata, sfiorava stendini e panni stesi, girava girandole e carezzava pergole di buganville fino a sollevare dal basso, come una carezza, quelle sottovesti sopra le gabbie.

- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è al centro del palco, in vestaglia grigia (con rivoli di sporco dalle gambe) e capelli lisci e arruffati a nascondere il viso-

E fu allora che scoprì che dentro le gabbie quei cazzi di nani gialli avevano rinchiuso i ragazzini, ormai morti, gonfi come quei meloni che a fine estate si spaccano al sole e sanno d'acido. Erano sopravvissuti per giorni e erano loro a soffiare, erano le loro dita tra le maglie delle gabbie a raspare quelle vestaglie come becchi di quaglie. E ricordo che mi misi a urlare.
Urlai forte non come si fa allo stadio ma come si fa ai funerali per compiacenza, gridai e imprecai i santi e quella madonna che stava lì sotto al centro del giardino. Furono bestemmie e latrati, furono parole sacrileghe e leziose. Oltraggiai Dio e suo figlio con tutta l'aria che avevo in petto, raccolsi tutti i beati che ricordavo e li nominai ognuno, uno dietro l'altro, tra risa isteriche e accidenti.
Poi feci incetta dei santi che divisi in base al sesso, alla devozione, castità e nazionalità. Tutti assieme finirono, uno per uno a essere maledetti, ingiuriati, offesi, rinnegati... e corsi alla porta e pregai mamma invece, che mi aprisse e mi facesse uscire. Battevo le mani con forza e non mi apriva, grattavo così forte che mi saltarono le capsule smaltate dalle unghie e poi le unghie... Ma non mi apriva.
Chiamai mamma per ore, forse di più. Raspai la porta fino a che consumai la carne sulle dita e i graffi divennero un martellare incessante, regolare, sfiancante di ossa.

- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è seduta dietro una porta al centro del palco, in vestaglia grigia (con rivoli di sangue dalle gambe). Ha le unghie rotte e la mani perdono sangue. I capelli lisci e arruffati a nascondere il viso.-

Ormai non grattavo più ma lasciavo scivolare l'osso delle dita lungo le assi della porta, come se pettinassi lo stipite, come se quell'asse di legno fossero i lunghi capelli neri di mamma mia.
Caduta a terrà con le ginocchia, piangevo, ingoiavo lacrime, respiravo appena tanto che mi si era aperto il petto e mamma mia non sentiva.
Per giorni stetti li seduta dietro la porta, con la finestra davanti e quei palloni nella gabbie. Ormai erano grossi frutti canditi.
E si erano alternati i giorni, i pari con quelli dispari e nemmeno domenica mamma mia mi aprì. Nè quella domenica ne tutte quelle che non ricordai. Non vi furono giorni che non fossero uguali agli altri. Seduta a quella porta, dietro il profilo della finestra vi erano bellissimi fiori infestanti nati sopra quei cesti di carne macera. Erano di un viola intenso come certi miei vestitini. Mi feci forza sulle ossa e mi avvicinai alla finestra scortata da una luce rosata di un mattino come tanti. Mi affacciai e c'era quella consueta, piccola madonna color lavanda nella teca di mattoni in ceramica. Un buco di gazebo con il tetto in legno, fiori secchi sopra quel viso casto e stondato da carità cristiane. Era stata piazzata lì assieme ai palazzi, assieme al cancello e ai due soli alberi di pero ormai secchi in mezzo allo spazio condominiale. Vidi uno storno di piccioni tornare dai castelli, comparvero dall'ambrata e tenua luce di quell'alba, tanto bella da potermi far battere il cuore. Ne avessi avuto uno.
Scorsi lontano i fianchi del raccordo deserto e, prima di rimettere in fila i santi e maledirli, mi accorsi che ormai Roma era morta.

- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è al centro del palco. Ha la vestina lacera e sporca. Ha le unghie rotte e la mani perdono sangue. I capelli lisci e arruffati ai lati delle orecchie e ha un viso di un morto, al suo primo mesiversario -

sabato 6 agosto 2011

Strani Accadimenti

Si aprì la porta del bus e aiutò il fratello a salire. Piccolo gibboso, scuro più di lui. Aveva i capelli neri e lucidi poco irti sopra il cranio come un cagnetto bagnato e unto. Un giubbino di finta pelle scamosciata, pantaloni in panno retti su‘ da una cintura a strati di cartone pressato a colla. Un paio di scarpe modeste tanto da tenerlo sulla terra e in vita in modo decente. Il viso come un mocassino storto in una scatola con gli occhi come due occhielli per lacci. La porta a pressione si chiuse dietro ai due soffiando fuori quell’ultima aria fredda accodatasi e Mario seguì il fratello con lo sguardo, guidandolo tra i posti e la gente. Lo guardava da dietro scortandogli le spalle curve e muovendo la testa come se lo filoguidasse fino agli ultimi sedili caldi sopra il motore. Ripresero la corsa da piazza dell'Emporio verso l'osteria. Era perso il Secco, lo seguiva in autobus e tra i tavoli senza mai dire una parola che non fosse l’elenco dei piatti del giorno o un grazie incespicato. Non parlava e annuiva soltanto, anche quando qualche cliente danaroso chiedeva più di una pietanza scaldata.
“A Mà vojo tornà da mamma stasera”
“e come ce torneresti a casa stasera sentimo 'n pò?”
“in treno Mà, er t- treno fino a Rieti e poi u- un volo p'er il paesello”
“Da Rieti? perchè da Rieti mò?”
“perchè lì fanno e po- porpette cor brodo callo che vojo fà magnà a mamma”
“brodo callo cò e porpette? sai da quann'è che nun se trova carne in giro? e sai chi ce trovi a casa fratè? De sicuro l'ossa de mamma e a sera quei vermi 'nfami”
Non dovette nemmeno voltarsi a guardarlo. Era certo che quel suo farneticare fosse l'ultimo gruzzolo di parole di tutto un anno. L’ultima volta che lo sentì blaterare fu quando, riuscì a comprare delle bistecche di manzo e sedani gialli al mercato rionale nel settembre del 2011, l'ultima volta. Prima dell'epidemia.
Era certo che i suoi discorsi sarebbero decantati dopo un pò come il vino dei castelli sciacquato, come il siero degli angeli in nuvole d’ovatta.
La prima loro fermata e la porta affianco si spalancò al civico 32 su Lungotevere Aventino. Il mercato stava dietro l’obliteratrice automatica, alle spalle della pensilina rinforzata. Dopo la grande pestilenza era raro trovare verdure verdi in cassetta, impensabile carni che non fossero riccioli nerastri attaccati ai nervi di grandi anche di vacche. Questo mercato era famoso perché degli ingrossi clandestini rifornivano alcuni chioschi di pesce di un azzurro macero e di teste d'orate per zuppe. Il fatto che fossimo alla frutta si capiva non dal colore delle banane peste come le braccia dei tossici sotto ai ponti ma dal fatto che non c’erano a terra scarti di verdure, bucce o scaglie secche di baccalà. La notte quei mostri ripulivano tutto, ogni cosa, smontavano auto e mangiavano ogni resto e porcheria. Sarebbe stato difficile riprendersi da quel fosso comune, ammassati come esseri vivi pronti a seccare. Come quelle stuoie di baccalà in salsa di sale.

La porta sfiatò olio e chiuse quello spettacolo mentre il motore sotto al culo dei due, tossendo gasolio agricolo in enormi fumate, arrancò per la via.
L'autobus era un vecchio Menarini rinforzato con spranghe ai finestrini. Sembrava un bus per cercerati ma era sicuro per i giri notturni.
“A Mà, gua- guardame nell' occhi”
e la cosa era davvero difficile visto che quelle due asole nero pece miravano, da sempre, le due sponde opposte del Tevere.
“guardame e dimme che se po fà che sta- stasera posso arivà a casa de mamma pè pè cena cò ee po- porpette e il brodo caaalloo callo, Mà”
La risata di Mario era ovvia anche se soffocata per la decenza di non mostrare tanto sarcasmo davanti a quel viso schiacciato con dentro un cervello che era la sala da ballo di falene e coccinelle.
“come credi de potè arrivà n'tempo pè cena a Se?”
“Nun dì cazzate! L'urtimi aerei che sò partiti da Fiumicino annaveno ancora a cherosene”
“Mo te ricordi che nun ce sta artro che gasolio pè trattori? che fai? Ce pisci dentro a quei tromboni? e magara aspetti pure che l'hostess te spigneno fino ar cielo?
”Ma poi scusa eh, come cazzo ciarivi tu a Rieti? vedi che machine ce stanno 'ngiro? Testaccio è 'n cesso, tutta Roma 'n cesso pieno de poracci de giorno e de morti la notte. E li treni?“
Mario stese i baffi ai lati in una smorfia che sapeva di isterico, di acido, come la mousse di latte di gatta che avrebbero offerto agli ultimi clienti prima di sera.
”i treni poi! ma nun famme ride fratè!“
beccando la testa del Secco con le dita.
”oramai viaggeno solo li cassoni e quelli pè la gente sò parcheggiati a Ostiense e Tibburtina“
Quelle parole erano cadute in faccia al Secco come gocce in un pantano molle.
Come l'ultimo angelus del Papa.
Il bus, da un pò, faceva una strada diversa, più lunga. Passava davanti a degli enormi palazzoni di fianco al Tevere. Dieci piani a portone per un’enorme struttura rinascimentale che arrivava dal Clivio di Rocca Savella fino a via della Greca. Le cose erano cambiate. Le grate cingevano i balconi, portoni in laminato pesante e i tetti avevano fili di cinta in metallo con antenne che spuntavano storte. I primi piani, avevano carrucole per portar sù il possibile senza che mai si lasciassero incustoditi gli alloggi. Ci si doveva guardare da una nuova generazione di ladri. I ladri di case. Erano capaci di svuotarti l’appartamento e mollarti con la credenza e il divano davanti strada in meno di un’ora. Era per questo che per le vie c’era sempre gente spaiata. Uno in giro a raccattare cibo e lavoro. Uno a sorvegliare casa.
Al ristorante mai più cene romantiche, matrimoni o feste di compleanno.
Del resto ogni anno passato era un anno in cui si era sopravvissuti, un anno un cui si era dato fondo a tutto ciò che la città poteva dare.
”senti Mà e se prenno uno di quei pa- pattini co e rotelle?“
Era tornato ancora a quell’idea folle guardando un enorme cartellone che pubblicizzava una catena di market con dei carrelli vuoti.
Mise una mano sul braccio di Mario come se temesse una reazione. Che non ci fù.
”si Mariè visto che nun ce sta ke- kerosene, benzina o treni p- p- potrei spigneme cò sta gamba sana fino ar paese, no?. Te ricordi Mariè che da ra- ragazzino riuscivo a sfonnà le porte con sta gamba? è ancora bo- booona sà? senti senti 'n pò quant’è tosta, pare na sfranga!“
Prese la mano di Mario e la posò sul quadricipite secco.
”è osso questo a Sè e te nun te reggi 'n piedi manco tra li tavoli dell'osteria, 'ndo cazzo vòi annà!“
”me sa che stasera, come tutte e sere te magni li scarti dietro al locale e te tocca pure de divide er cuscino cò me“
”Anzi sai che pòi fà? chiedi 'n pò all’autista si te da 'no strappo fino ar paesello der cazzo, o magari pòi mannà 'n saluto a mamma cor microfono. Ah e ricorda de mannalle puro li saluti mia, li bacetti der pupo piccolo le dichi... li bacetti de li mortacci tua che stasera riprenneranno a girà pè Roma, sti cani, morti 'n fami!“
Ormai parlava senza voltarsi. Quasi stanco di ascoltarlo ma scosso anche lui da quella stessa voglia di andare via.
Ma non avrebbero potuto in tempi migliori. Era impensabile ora che tutto il mondo era fermo e immobile. Scalciante appena, prima del tracollo. Come un enorme obolo spento nello spazio profondo.
Un mondo diviso tra il giorno e la notte, il giorno dei vivi e la notte dei morti.
Il bus percorreva gli ultimi tratti del lungotevere Aventino. La strada, come molte in città, era asfaltata al risparmio, due rivoli di catrame come rotaie e ai lati e in mezzo sterpaglie e sabbia. Gli autobus dovevano percorrere quelle strisce nere per non smontarsi dentro le voragini che la pioggia apriva ogni volta.
Fuori dai finestrini ingabbiati l'Isola Tiberina e lo spettacolo orrendo come ogni mattina. Il fiume si apriva in due come lacero e in punta a quel piccolo stralcio di terra, forconi e reti a raccogliere i morti della notte. Lì si ammassavano gonfi e nudi, infilzati e aperti. File di cavi metallici tenevano griglie per la raccolta dei corpi. Vi erano tre livelli di grate che filtravano via via le acque e le ripulivano dallo spettacolo immondo che non doveva raggiungere i cortili dei ricchi subito dopo l'isola. L'ospedale era stato sfollato ed era diventato la gendarmeria del primo municipio. Lì, nei saloni più alti, alloggiava il nuovo governo.
Roma, prima del disfacimento, aveva 19 circoscrizioni comunali, ognuna dipendente dal Campidoglio. In seguito al fermento di diffusa autogestione le circoscrizioni erano diventate 234.

Il Secco con le mani ad arco sui vetri del bus seguiva un anziano che portava su un carretto due corpi rinsecchiti fino a uno di quegli inceneritori chimici sparsi per la città.
”sai che ce po- potrei annà a passaggi?“
stava continuando a tirar fuori altra pappetta di parole quando Mario gli puntò l’angolo del gomito sulla faccia.
Voleva che il suo silenzio durasse almeno le ultime 2 fermate.
”si a Mà potr.....“
E partì quell’angolo d’osso e tendini per dove le parole davano fiato a alle cazzate. Mario vide quella testa sbattere forte sulla vetrata posteriore. Un rumore cupo, vuoto e quel cranio malforme che rinculava come un pungiball alle giostre. Non era ancora tornato a sbattere sul gomito che già Mario fu assalito da un dispiacere fraterno che invece di sedare la sua rabbia la caricò come una grossa molla.
Era come se il provare afflizione, per quel cazzotto sul muso del fratello, nutrisse in lui una disperazione cupa che lo tirava giù in uno sprofondo fatto di nervi e scatti di bestia. Si girò senza scollare il culo e costrinse la testa del poveretto nell’angolo e il vetro. Con la sinistra teneva il viso tra il pollice e le altre dita e con la destra puntava gli occhi. Quei cazzi di occhi sempre accesi sulla vita di entrambi. Sempre troppo accorti lui che era un povero deficiente. Lui che non poteva permetterselo.
Iniziò a piantare dei colpi secchi proprio sopra quei bulbi aperti e increduli. Pareva li contasse per spartirli in numero pari per ogni apertura sbarrata in cerca di grazia. Il Secco poteva urlare appena stretta com’era la sua bocca tra le dita del fratello più giovane. E questi continuò a bussare su quello sguardo con la forza e la rabbia che aveva in corpo, fino a sentire le ossa sue stanche e quelle del fratello peste a sufficienza. Si fermò e con lui gli sputacchi di rabbia sopra il viso dell’altro. Si fermò aprendo la bocca per tornare a respirare e lasciando che l’altra, sfilata dalle sue dita, potesse urlare finalmente. E furono urla di bimbo, di cane dalla coda mozzata, urla stupide anche quelle. Urla lacere come i suoi occhi. Mario si girò per tornare a fissare la strada e quei morti appesi tra le due file di sedili. Nessuna esitazione o smorfia sul suo viso intonzo. Il Secco, invece, si sollevò da quell’angolo come un elastico. Rimise in un attimo una delle chiappe sul sedile e quando il busto si allineò al bacino le urla presero respiro. Divennero più lancinanti e disperate. La bocca aperta storceva tutto attorno. Gli occhi gonfi di lacrime e sangue, la punta del mento lontana da ogni cosa che fossero pensieri sereni in quel finire del viaggio sul Lungotevere.
Le mani consegnate alle ginocchia e tutto il busto in un’altalena che sembrava una febbrile preghiera.
Il giovane fratello si stese appena per prenotare la fermata mentre lo sguardo pesto dell’altro seguiva quella mano arrossata in punta facendo scemare a fatica le grida e il pianto, piano piano.
Restarono solo singhiozzi su quel viso dolcissimo.
Mario si alzò, posò lo sguardo sulla testa di un passeggero che tirava su il colletto, forse per paura e si girò per guardare il fratello. Gli prese la mano con premura e scesero davanti all'osteria.
Il bus li salutò sul marciapiede sbuffando fumo e polvere. Mario lo accompagnò con due dita sul fianco fino all’entrata. Gli rammentò lo scalino e lo vide sparire dentro, dopo una lieve spinta alle spalle, tra i tavoli da sistemare.
Lui prima di entrare raccolse due tovaglie da sopra un filo di nylon, teso tra gli infissi della vetrina.
Levò la posta dalla cassetta e su un volantino lesse del reclutamento per la resistenza romana.
Lasciò per un attimo lo sguardo fuori dalla porta per scorgere un gatto che dondolante e gattone attraversava la strada fino al parco. Sorrise appena, pensando che non ci sarebbe stata mousse da servire quel giorno... e entrò. Prima che i morti, come ogni sera, invadessero Roma.