Si aprì la porta del bus e aiutò il fratello a salire. Piccolo gibboso, scuro più di lui. Aveva i capelli neri e lucidi poco irti sopra il cranio come un cagnetto bagnato e unto. Un giubbino di finta pelle scamosciata, pantaloni in panno retti su‘ da una cintura a strati di cartone pressato a colla. Un paio di scarpe modeste tanto da tenerlo sulla terra e in vita in modo decente. Il viso come un mocassino storto in una scatola con gli occhi come due occhielli per lacci. La porta a pressione si chiuse dietro ai due soffiando fuori quell’ultima aria fredda accodatasi e Mario seguì il fratello con lo sguardo, guidandolo tra i posti e la gente. Lo guardava da dietro scortandogli le spalle curve e muovendo la testa come se lo filoguidasse fino agli ultimi sedili caldi sopra il motore. Ripresero la corsa da piazza dell'Emporio verso l'osteria. Era perso il Secco, lo seguiva in autobus e tra i tavoli senza mai dire una parola che non fosse l’elenco dei piatti del giorno o un grazie incespicato. Non parlava e annuiva soltanto, anche quando qualche cliente danaroso chiedeva più di una pietanza scaldata.
“A Mà vojo tornà da mamma stasera”
“e come ce torneresti a casa stasera sentimo 'n pò?”
“in treno Mà, er t- treno fino a Rieti e poi u- un volo p'er il paesello”
“Da Rieti? perchè da Rieti mò?”
“perchè lì fanno e po- porpette cor brodo callo che vojo fà magnà a mamma”
“brodo callo cò e porpette? sai da quann'è che nun se trova carne in giro? e sai chi ce trovi a casa fratè? De sicuro l'ossa de mamma e a sera quei vermi 'nfami”
Non dovette nemmeno voltarsi a guardarlo. Era certo che quel suo farneticare fosse l'ultimo gruzzolo di parole di tutto un anno. L’ultima volta che lo sentì blaterare fu quando, riuscì a comprare delle bistecche di manzo e sedani gialli al mercato rionale nel settembre del 2011, l'ultima volta. Prima dell'epidemia.
Era certo che i suoi discorsi sarebbero decantati dopo un pò come il vino dei castelli sciacquato, come il siero degli angeli in nuvole d’ovatta.
La prima loro fermata e la porta affianco si spalancò al civico 32 su Lungotevere Aventino. Il mercato stava dietro l’obliteratrice automatica, alle spalle della pensilina rinforzata. Dopo la grande pestilenza era raro trovare verdure verdi in cassetta, impensabile carni che non fossero riccioli nerastri attaccati ai nervi di grandi anche di vacche. Questo mercato era famoso perché degli ingrossi clandestini rifornivano alcuni chioschi di pesce di un azzurro macero e di teste d'orate per zuppe. Il fatto che fossimo alla frutta si capiva non dal colore delle banane peste come le braccia dei tossici sotto ai ponti ma dal fatto che non c’erano a terra scarti di verdure, bucce o scaglie secche di baccalà. La notte quei mostri ripulivano tutto, ogni cosa, smontavano auto e mangiavano ogni resto e porcheria. Sarebbe stato difficile riprendersi da quel fosso comune, ammassati come esseri vivi pronti a seccare. Come quelle stuoie di baccalà in salsa di sale.
La porta sfiatò olio e chiuse quello spettacolo mentre il motore sotto al culo dei due, tossendo gasolio agricolo in enormi fumate, arrancò per la via.
L'autobus era un vecchio Menarini rinforzato con spranghe ai finestrini. Sembrava un bus per cercerati ma era sicuro per i giri notturni.
“A Mà, gua- guardame nell' occhi”
e la cosa era davvero difficile visto che quelle due asole nero pece miravano, da sempre, le due sponde opposte del Tevere.
“guardame e dimme che se po fà che sta- stasera posso arivà a casa de mamma pè pè cena cò ee po- porpette e il brodo caaalloo callo, Mà”
La risata di Mario era ovvia anche se soffocata per la decenza di non mostrare tanto sarcasmo davanti a quel viso schiacciato con dentro un cervello che era la sala da ballo di falene e coccinelle.
“come credi de potè arrivà n'tempo pè cena a Se?”
“Nun dì cazzate! L'urtimi aerei che sò partiti da Fiumicino annaveno ancora a cherosene”
“Mo te ricordi che nun ce sta artro che gasolio pè trattori? che fai? Ce pisci dentro a quei tromboni? e magara aspetti pure che l'hostess te spigneno fino ar cielo?
”Ma poi scusa eh, come cazzo ciarivi tu a Rieti? vedi che machine ce stanno 'ngiro? Testaccio è 'n cesso, tutta Roma 'n cesso pieno de poracci de giorno e de morti la notte. E li treni?“
Mario stese i baffi ai lati in una smorfia che sapeva di isterico, di acido, come la mousse di latte di gatta che avrebbero offerto agli ultimi clienti prima di sera.
”i treni poi! ma nun famme ride fratè!“
beccando la testa del Secco con le dita.
”oramai viaggeno solo li cassoni e quelli pè la gente sò parcheggiati a Ostiense e Tibburtina“
Quelle parole erano cadute in faccia al Secco come gocce in un pantano molle.
Come l'ultimo angelus del Papa.
Il bus, da un pò, faceva una strada diversa, più lunga. Passava davanti a degli enormi palazzoni di fianco al Tevere. Dieci piani a portone per un’enorme struttura rinascimentale che arrivava dal Clivio di Rocca Savella fino a via della Greca. Le cose erano cambiate. Le grate cingevano i balconi, portoni in laminato pesante e i tetti avevano fili di cinta in metallo con antenne che spuntavano storte. I primi piani, avevano carrucole per portar sù il possibile senza che mai si lasciassero incustoditi gli alloggi. Ci si doveva guardare da una nuova generazione di ladri. I ladri di case. Erano capaci di svuotarti l’appartamento e mollarti con la credenza e il divano davanti strada in meno di un’ora. Era per questo che per le vie c’era sempre gente spaiata. Uno in giro a raccattare cibo e lavoro. Uno a sorvegliare casa.
Al ristorante mai più cene romantiche, matrimoni o feste di compleanno.
Del resto ogni anno passato era un anno in cui si era sopravvissuti, un anno un cui si era dato fondo a tutto ciò che la città poteva dare.
”senti Mà e se prenno uno di quei pa- pattini co e rotelle?“
Era tornato ancora a quell’idea folle guardando un enorme cartellone che pubblicizzava una catena di market con dei carrelli vuoti.
Mise una mano sul braccio di Mario come se temesse una reazione. Che non ci fù.
”si Mariè visto che nun ce sta ke- kerosene, benzina o treni p- p- potrei spigneme cò sta gamba sana fino ar paese, no?. Te ricordi Mariè che da ra- ragazzino riuscivo a sfonnà le porte con sta gamba? è ancora bo- booona sà? senti senti 'n pò quant’è tosta, pare na sfranga!“
Prese la mano di Mario e la posò sul quadricipite secco.
”è osso questo a Sè e te nun te reggi 'n piedi manco tra li tavoli dell'osteria, 'ndo cazzo vòi annà!“
”me sa che stasera, come tutte e sere te magni li scarti dietro al locale e te tocca pure de divide er cuscino cò me“
”Anzi sai che pòi fà? chiedi 'n pò all’autista si te da 'no strappo fino ar paesello der cazzo, o magari pòi mannà 'n saluto a mamma cor microfono. Ah e ricorda de mannalle puro li saluti mia, li bacetti der pupo piccolo le dichi... li bacetti de li mortacci tua che stasera riprenneranno a girà pè Roma, sti cani, morti 'n fami!“
Ormai parlava senza voltarsi. Quasi stanco di ascoltarlo ma scosso anche lui da quella stessa voglia di andare via.
Ma non avrebbero potuto in tempi migliori. Era impensabile ora che tutto il mondo era fermo e immobile. Scalciante appena, prima del tracollo. Come un enorme obolo spento nello spazio profondo.
Un mondo diviso tra il giorno e la notte, il giorno dei vivi e la notte dei morti.
Il bus percorreva gli ultimi tratti del lungotevere Aventino. La strada, come molte in città, era asfaltata al risparmio, due rivoli di catrame come rotaie e ai lati e in mezzo sterpaglie e sabbia. Gli autobus dovevano percorrere quelle strisce nere per non smontarsi dentro le voragini che la pioggia apriva ogni volta.
Fuori dai finestrini ingabbiati l'Isola Tiberina e lo spettacolo orrendo come ogni mattina. Il fiume si apriva in due come lacero e in punta a quel piccolo stralcio di terra, forconi e reti a raccogliere i morti della notte. Lì si ammassavano gonfi e nudi, infilzati e aperti. File di cavi metallici tenevano griglie per la raccolta dei corpi. Vi erano tre livelli di grate che filtravano via via le acque e le ripulivano dallo spettacolo immondo che non doveva raggiungere i cortili dei ricchi subito dopo l'isola. L'ospedale era stato sfollato ed era diventato la gendarmeria del primo municipio. Lì, nei saloni più alti, alloggiava il nuovo governo.
Roma, prima del disfacimento, aveva 19 circoscrizioni comunali, ognuna dipendente dal Campidoglio. In seguito al fermento di diffusa autogestione le circoscrizioni erano diventate 234.
Il Secco con le mani ad arco sui vetri del bus seguiva un anziano che portava su un carretto due corpi rinsecchiti fino a uno di quegli inceneritori chimici sparsi per la città.
”sai che ce po- potrei annà a passaggi?“
stava continuando a tirar fuori altra pappetta di parole quando Mario gli puntò l’angolo del gomito sulla faccia.
Voleva che il suo silenzio durasse almeno le ultime 2 fermate.
”si a Mà potr.....“
E partì quell’angolo d’osso e tendini per dove le parole davano fiato a alle cazzate. Mario vide quella testa sbattere forte sulla vetrata posteriore. Un rumore cupo, vuoto e quel cranio malforme che rinculava come un pungiball alle giostre. Non era ancora tornato a sbattere sul gomito che già Mario fu assalito da un dispiacere fraterno che invece di sedare la sua rabbia la caricò come una grossa molla.
Era come se il provare afflizione, per quel cazzotto sul muso del fratello, nutrisse in lui una disperazione cupa che lo tirava giù in uno sprofondo fatto di nervi e scatti di bestia. Si girò senza scollare il culo e costrinse la testa del poveretto nell’angolo e il vetro. Con la sinistra teneva il viso tra il pollice e le altre dita e con la destra puntava gli occhi. Quei cazzi di occhi sempre accesi sulla vita di entrambi. Sempre troppo accorti lui che era un povero deficiente. Lui che non poteva permetterselo.
Iniziò a piantare dei colpi secchi proprio sopra quei bulbi aperti e increduli. Pareva li contasse per spartirli in numero pari per ogni apertura sbarrata in cerca di grazia. Il Secco poteva urlare appena stretta com’era la sua bocca tra le dita del fratello più giovane. E questi continuò a bussare su quello sguardo con la forza e la rabbia che aveva in corpo, fino a sentire le ossa sue stanche e quelle del fratello peste a sufficienza. Si fermò e con lui gli sputacchi di rabbia sopra il viso dell’altro. Si fermò aprendo la bocca per tornare a respirare e lasciando che l’altra, sfilata dalle sue dita, potesse urlare finalmente. E furono urla di bimbo, di cane dalla coda mozzata, urla stupide anche quelle. Urla lacere come i suoi occhi. Mario si girò per tornare a fissare la strada e quei morti appesi tra le due file di sedili. Nessuna esitazione o smorfia sul suo viso intonzo. Il Secco, invece, si sollevò da quell’angolo come un elastico. Rimise in un attimo una delle chiappe sul sedile e quando il busto si allineò al bacino le urla presero respiro. Divennero più lancinanti e disperate. La bocca aperta storceva tutto attorno. Gli occhi gonfi di lacrime e sangue, la punta del mento lontana da ogni cosa che fossero pensieri sereni in quel finire del viaggio sul Lungotevere.
Le mani consegnate alle ginocchia e tutto il busto in un’altalena che sembrava una febbrile preghiera.
Il giovane fratello si stese appena per prenotare la fermata mentre lo sguardo pesto dell’altro seguiva quella mano arrossata in punta facendo scemare a fatica le grida e il pianto, piano piano.
Restarono solo singhiozzi su quel viso dolcissimo.
Mario si alzò, posò lo sguardo sulla testa di un passeggero che tirava su il colletto, forse per paura e si girò per guardare il fratello. Gli prese la mano con premura e scesero davanti all'osteria.
Il bus li salutò sul marciapiede sbuffando fumo e polvere. Mario lo accompagnò con due dita sul fianco fino all’entrata. Gli rammentò lo scalino e lo vide sparire dentro, dopo una lieve spinta alle spalle, tra i tavoli da sistemare.
Lui prima di entrare raccolse due tovaglie da sopra un filo di nylon, teso tra gli infissi della vetrina.
Levò la posta dalla cassetta e su un volantino lesse del reclutamento per la resistenza romana.
Lasciò per un attimo lo sguardo fuori dalla porta per scorgere un gatto che dondolante e gattone attraversava la strada fino al parco. Sorrise appena, pensando che non ci sarebbe stata mousse da servire quel giorno... e entrò. Prima che i morti, come ogni sera, invadessero Roma.
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