lunedì 18 luglio 2011

la fuga

Lasciò cadere il cappotto e senza guardarlo in faccia biascicò qualcosa, pergiunta sottovoce
“ cosa hai fregnato?” disse LD
“ sputa qualche gruzzolo di merda che hai tra i denti e le parole e fà sentire anche me” urlò LD con la riserva di coraggio di quel mese.
“ devi andar via, ho deciso, abbiamo deciso! ” riuscì a gridare Maxim senza guardarlo negli occhi per non pentirsi anche questa volta.
“ si! devi lasciare questa casa cazzooo ” urlò la piccola e panciuta pin-up tenendo l’urlo premuto su quella ultima “o”, come se avesse due o tre fiati o una cospicua esperienza a trattenerlo a lungo in gola.
Ld posò la mano armata di sigaretta leccata sul rossetto lavanda della piccola sgualdrina di lettere elettriche, stese il collo quanto potè quella sera e senza disincastrare la gonfia e lurida canotta dal bordo del tavolo accennò una distrofica scenata.
Volò di tutto, sputacchi, bestemmie, pelle vecchia dai baffi persino pezzi di cena della sera prima ... e ancora bestemmie.
Era come se avesse fatto il giro del sacrato, attraversato le navate, di corsa sotto ai baldacchi, un lieve inchino al patrono e poi giù inveendo contro tutti i santi che ricordava la chiesa, in fondo alla via, contenesse.
Maxim tremava, il viso e con esso il collo e le spalle, illuminata dal lampadario basso sopra il tavolo da pranzo in una nuvola di gocce, scaglie e insulti. Ma non cedette questa volta.
“ devi andar via e con te porta tutte le tue cose ” disse Maxim con una forza nuova o come chi è alla fine di una vita.
Ci fu un attimo di silenzio in casa, come se tutti e tre aspettassero un qualcosa che cambiasse le loro esistenze.
Ld si alzò e con lui anche la sedia attacata per la spalliera a una tasca dei pantaloni. Poi cadde a terra e questo rese fortuitamente il gesto più plateale.
Ma le due non sembrarono turbate ricordando che per attacchi di colite morbida Ld era capace di gesti atletici maggiori.
“portati via le tue cose!” disse ancora Maxim facendosi scudo con la corpulenta figlia.
E poi si interruppe.
Quell’attimo di silenzio era come se avesse caricato l’aria e fatto spazio in una lite in cui ora spettava a Ld la mossa migliore.
Non si preoccupò della sedia e anzi con stizza la scaraventò col piede fino alla base del forno. Si mosse come un rapper coi calzoni calati verso le due donne che si aprirono ai lati come gli invitati a una cerimonia... la cerimonia di LD a cui toccava il sermone.
Lui, con il collo incassato tra le spalle e la testa che contava i lastroni di cotto per terra, si diresse al piano di sopra contando 4 quadrati e una listella di marmo rosa.
Salendo prese respiro per l’inerpicata e per il resto dei farfugli e scazzi che avrebbe detto ad alta voce.
“ vi pentirete di non avermi tra i piedi stronze” urlò sulla prima rampa.
“ e quando non ci sarò e non saprete a chi additare colpe capirete cosa fare delle vostre fottute dita” disse alzando il medio per poi portarselo sotto al cavallo con un giro tondo e largo quanto il suo culo.
Sulla seconda rampa Ld avrebbe iniziato il carico e così fece mettendosi sotto braccio una vecchia coppa del circolo nautico, una sorta di stele nera lucida che il caso volle fosse anche del 2001. Ma erano mesi che programmava una simile fuga e quell’oggetto sarebbe servito.
Prese una vecchia valigia rigida da sopra l’armadio del corridoio e andò subito in bagno. In quella casa non aveva mai avuto un guardaroba e i suoi indumenti facevano una breve spola dal buco della lavratrice a molle fino a sopra il cesto di vimini dei panni sporchi. Solo quella sera, dopo otto anni lì dentro, si rese conto del perchè i suoi indumenti puzzassero sempre, comunque, anche se lindi.
Capì che da quel cesto intestato, su cui c’erano le sue iniziali, salivano gli effluvi maleodoranti di intere giornate sprecate fin sopra al mucchio di panni puliti e mai piegati. Poteva capire di non esser mai stato inserito nel quadretto familiare dal fatto che la loro cesta blu mare con fiori e pescetti in decoupage era a debita distanza dalla sua.
Mise la valigia sopra la tazza del cesso e senza pensare, lo aveva fatto tante altre vote ormai, divise quello spazio in due con la stele dal gambo dorato. Nel lato destro infilò con forza le cose pulite. Prese una busta di plastica dall’armadietto, la stese sopra come un lenzuolo da coroner e mise sul secondo strato i panni sporchi presi dentro la cesta. Era quasi orgoglioso di una simile attenzione per i suoi stracci. Poi si diresse verso lo scrigno marino certo di non trovarci cefali ma vestitini usati. Inizio a ridacchiare di gusto. Infilò la mano piegando il viso di lato e verso l’alto come si fa quando si raccolgono lumache in mare, per non affogare e, tastando, raccolse il pizzo e i merletti ben sapendo che era tutta roba della sua adorata figliastra. Nella breve parabola che quelle mutandine facevano dalla cesta alla valigia, odorava l’aria come un setter pregustando le sue intimità lontano da quella stronzetta che sarebbe andata in giro, per giorni, a carne e jeans.
Aveva riempito ormai ogni angolo, premuto con l’osso delle nocche per fare altro spazio e prese il dentifricio strozzato e storto, il suo spazzolino, quello di Maxim lo passò sotto le ascelle e lo ripose, quello di Rae fece la via più bassa sotto alla patta e lo rimise dov’era facendo attenzione al verso. Poi prese il lucido per le scarpe e il colorante spray per la pelata, toccò, quindi, alle lamette. Chiuse la valigia salendoci sopra col ginocchio, pensado che quella potesse esser la faccia della mogliastra e disegnò un rettangolo, sopra al cesso, con la zip tra le dita. Se la sbattè sulle gambe e uscì fuori. Attraversò il corridoio raccatando dalla libreria il libro “1000 modi x pulire mitili”, la prima rampa di scale a scendere e raccolse, da una mensola, una bolla di vetro con dentro una nave e la neve. La seconda rampa e giù al piano delle vedove, dentro all’ingresso che gli era sembrato l’ultima camera di metallo prima del boccaporto.
Le due lo scorsero col nervo degli occhi trafelato e appeso a quel bagaglio e continuando il poker rimarcarono la loro totale indifferenza chiamandosi il palo. Lui parve come in un quadretto, un piccolo omino e la sua vita in valigia, incorniciato dallo stipite della porta della cucina, la luce del piano di sopra che colorava d’ocra l’ingresso e in fondo, nel profondo, il salotto con due sofà stanchi.
All’accuso di picche, Ld
“ vi porterò con me e finirete la vostra lurida vita prima della prossima mano!”
non sapeva il vero signifcato di quelle parole ma stavano bene in quel contesto, in quell’angolo davanti all’uscita.
Ld si chiuse la porta alle spalle.
Sulla veranda due sedie e un tavolino di tavole. Spinse a terra con le dita due piccoli cactus interrati in terrine di cene cinesi, strappò con forza lo scaccia spiriti appeso. Si infilò in tasca una scatola di cerini e nel’altra una chiave da 12. Scese i tre scalini e toccò terra finalmente. Poggiò la valigia e la trascinò sopra il vialetto di gladioli di Maxim. Nella tasca di dietro infilò il finto osso di Bobby quando, piegandosi, vide la canna dell’acqua. L’alzò e con essa il fogliame di un vecchio pioppo, si fermò, la tirò con forza fino a tenderla all’altro capo. La tenne in mano, soppesandola e fu allora che capì il senso di quelle sue ultime parole. Si passò la canna sulla spalla destra si girò e scese per il vialetto. Quel tubo di plastica si svolse vicino alla fontana murata alla casa. Era quasi finito il vialetto e si era svolta per tre giri.
LD allo strappo sembrò barcollare indietro quando dal lato opposto della tubo un lieve scossone alle fodamenta e le pareti di legno, tutte, se ne vennero apresso a lui come il tendone di un circo, come un grande telo con sopra la stamapa a caldo di una casa con due stronze dentro. Prese per la Glenwood Dr, verso il molo, tra gli alberi e la luce dei lampioni, con la valigia sulle gambe e un grosso sacco al guinzaglio di una canna d’acqua.

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