lunedì 12 dicembre 2011

di mattina

La mattina, più che in qualsiasi altra fascia oraria ti vengono in mente i pensieri migliori. Peccato che, stamattina, in mezzo traffico, sotto al casco, stretto ai margini dalla mentoniera, nessuno avesse potuto sentire la frase sortami spontanea...
stavo guardando un tizio serafico in una punto blu dell'84 con in mano un nokia 3310.
"la felicità è come na saponetta nel culo, alla fine ti si scioglie dentro e ti resta solo la schiuma" la cosa me la ripetevo incessantemente dentro a quel cubicolo in fibra, caldo come un forno... e del mio cervello, intanto, era pronto uno sformato di patate.

domenica 11 dicembre 2011

Isabel del mare

Un salto nel buio coriandolo di un'iride sopra la lieve superficie di un mare calmo. Spruzzi gelati e il cielo di quella notte. La spiaggia spezzata da piloni di ghiaccio, palizzate e barche in rimesse coperte da resti di alghe corallo e morti di lische appese. Lungo il viale fino alle prime fila di oblò dentro cui dormivano madri di naufraghi, quell'ultimo sospiro si levò sopra sottili lembi di primule in un vorticare d'alito incanto. Si strinse sui fianchi e ruotò come in una balera di stelle per prendere il largo sopra quelle distese senz'alberi. Si crespò di un petalo al gelo, si stirò sopra sbuffi di nuvole cariche d'acqua e carezzò il blu più alto in una parabola che gli fece attraversare villaggi e terre rabarbaro. Lievemente si lasciò cadere arricciando l'aria fredda fin su il primo comignolo dell'albergo, sopra le assi, attorno all'angolo del sottotetto. Appeso per un solo attimo al cardine della finestra vaporò sopra quel vetro, graffiato dal ghiaccio, come orma d'anima calda. Si consumò in una condensa di lacrimevoli gocce su quel viso d'ovatta aldilà del vetro e Isabel fu di un solo battito d'occhi.

Piegò la testacome di una commiserata veglia su quella notte ingoiata dietro monti che sistendevano in ghiacciaie fino a valle come enormi ceri sciolti al finir della sera. Si levò e voltò lievemente lo sguardo su due piccoli letti a capanno sotto cui dormivano i suoi bimbi.

Quegli enormi piumoni, svoltati due volte, li seppellivano come manti di neve e da piccoleasole per occhi d'orsetti respiravano sotto iglù di cashmere.

Un sorriso, appena, le stirò quel viso paffuto e, in volute di setosa pelle, gli occhi le sistrinsero ai margini di coralli d'acqua. Senza passi o ancheggi si avvicinò al centro di quei letti. La camicia da notte le sfilava lungo un corpo ossuto, trasparente, tra ciglia di seta e bottoni. Luceva del riverbero blu della neve fuori la finestra. Si inchinò e spalando i visetti dei figli tra le coperte li raccolse tra le mani. Al centro, tra i due, guardava le travi, in alto, accennando una nenia.

Con le dita e l'indice percorse il mento di Olav fin su le orecchie, lui che ascoltava poco eparlava di storie e di elfi. Di sperduti monti e delle viscere dei rospi che sapevano cantare:

"Seguirò l’aria che sfiori con gli occhi da mamma, ascolterò le tue storie che saranno mie e ti avrò vicino col fianco aperto al sole dei giorni nostri che saranno"

Ed era incantevole la sua voce e quei gesti di amorevole mamma.

Si voltò sulla sinistra verso Gustavrovistò tra le coperte per perdersi le dita tra i riccioluti biondi. Dolcemente l'indice scorse il viso, gli occhi chiusi e scivolò su quella boccuccia di cuore. Lui che tra i due era l'ometto romantico. Isabel si avvicinò con le labbra a quelle più piccole e intonò un' altra strofa: "Sorridimi sopra gli stipiti del cielo, sorridi, oltre gli astri e i lamponi di marzo, carezzami a lato degli occhi e….. sii ancora mio con un bacio e tutta l’anima tua"

Sembrava cantasse la musica della terra con note di cielo mosse da labbra sottili in minuetti che erano tocchi di un angelo venuto dal mare. Nata dalla spuma in vesti d'alghe a custodire i sogni dei suoi due bimbi. Il tintinnio di quel suo canto dava animo e movenza al grande lampadario a tre ceri e la luce pareva ballare, ocra di olii di grandi balene.

Isabel si tirò su mentre le dita carezzavano piano i due piccoli musetti aperti dal sonno. E ballava al centro tra i bimbi. Le spalle come ali di piume, come onde grasse e lente. La risacca del suo ventre era il sensuale respiro di un'avvenente sposa. Passò davanti al comò, senza passi, quasi volasse, sfiorando le foto del suo amore e di lei bimba davanti al mare. Un girotondo in mezzo alla stanza, sospiri di luce e cantilene che spezzavano il buio agli angoli della stanza come lucciole in una scatola. Sfiorò l'abatjour che come d'incanto si mise a ruotare attorno al suo perno, un piccolo mondo

di chiffon e polline di luce alle pareti. Isabel sembrava prendere aria sopra le assi che si scaldavano, luminescenti e si piegavano in su per poi richiudersi come farfalle di cedro.

Volute di ammaliante cobalto si aprivano ad ogni suo gesto, ad ogni suo torcersi sopra ifianchi e tutto attorno prendeva vita. I mobili di legno fiorivano di licheni e muffe di gemmearancio. Le tende si gonfiavano come vele al vento del nord e gli angoli stretti della camera si gonfiavano quasi che l'intera stanza diventasse un'ampolla pronta a volare nel cielo di quella sua ultima notte sulla terra.

Di quella sua ultima notte sulla terra... "ci sarà sempre l’ombra a dettarti parole, di fianco,sulla tua destra, quando i pensieri concluderanno il giro. Un suo accenno, e..."

E si ruppe l'incanto, sulla sua destra. Fermò la giostra di luci sopra i fianchi e sbatterono a terra i mobili e il letto. Caddero le gemme come singhiozzi e le risaie di mughetti sopra gli stipiti seccarono in un lampo. Isabel s'accasciò vicina al proprio corpo martoriato e fu un lamento cupo. Un schianto tetro dentro al suo petto. Il pianto le salì dal seno e le aprì la bocca come uno strazio. Si vide lì, di fianco al letto, in pose aperte e sconce, sopra un sanguinaccio bruno di pelle e carni.

E si ruppe l'incanto. Iniziò a battersi il cuore da sopra le vesti. L'affranto e le grida nonsvegliarono i bimbi, nemmeno il battere le mani sopra le travi del tetto li distolse dal sonno... e non le restò altro che portarseli via.

Il blu della neve illuminava appena la stanza. Isabel trascinò i piccoli appesi per i mignoli,nel buio del grande armadio. Un piedino si ruppe incastrato tra le ante. Un lieve strappo d'osso e i tre scomparvero per sempre.

domenica 21 agosto 2011

Sud

É il modo, un pó a cazzo, con cui il sole si abbatte su costoni, sterpi, su sterrati aridi e avidi d'acqua.
Quel modo affranto con cui la luce ti cade addosso malgrado l'ora e le migliaia successive da passare in bar di baracche e latte per insegne.
Sud é il modo storto con cui la gente ti guarda, un pó a cazzo, prima di decidere se piantarti nel petto un fendente o un sorriso.
É il modo indisposto con cui gli alberi coprono colline e montagne, muri di pietra e lampioni, il modo che hanno di mischiarsi a cazzo alla brezza dei rigagnoli e al fragore dei tonfi dei turisti sui cristalli d'acqua nelle stagioni estive.
Sud é quell'asmatica maniera delle case, scarnate, snervate, coi mattoni in fiore e i ferri come antenne di locuste a equo canone. Divise a cazzo con cinte e sequele di puntelli da geometri serali.
É quel sonno violento in cui ricade ogni notte steso sopra i giorni di ognuno, quel torpore d'ansia di mamme che aspettano ai cancelli ferrati ai margini di chiuse aperte al delirio delinquente di faide.
É il color lampone di lampare in mare come luccichi di bombe brillate sotto strade a macchine d'eroi in lampi di allampanati fragori infranti.
É il modo un pó a cazzo di prendere in prestito l'aria fritta delle feste, di santi patronali padroni di comuni dentro ai monti e alle pance di spiagge che san di sale e chiappe di Milano.
É quel tintinnio aspirato di sillabe e dittonghi lungo le vie di parabole che non portano a un cazzo, discorsi persi e fiabe antiche di casellanti notturni dentro treni spenti.
É la mia terra e un pó il mio modo... A cazzo.

domenica 7 agosto 2011

Alessandrino's girl

- Una bambina diafana con capelli lunghi e lisci davanti il viso e sulle spalle, in vestaglia bianca (candida) sotto uno spot e tutto attorno il buio della scena -

C'era quella consueta, piccola madonna color lavanda nella teca di mattoni in ceramica. Un buco di gazebo con il tetto in legno, fiori secchi sopra quel viso casto e stondato da carità cristiane. Era stata piazzata lì assieme ai palazzi, assieme al cancello e ai due soli alberi di pero in mezzo allo spazio condominiale. Vi erano due box lavanda per lavatoi, tre panchine e niente altro.
Gli edifici circondavano quel giardino come grosse piantane, piantate a terra, senza terrazzi.
La pioggia gonfiava nuvole immense.
Lungo il profilo della torre 4, nel condominio 103 del quartiere Alessandrino, un corpo era caduto sopra il cemento. Lo schianto fu cupo, come una busta di latte sbollito... e lo stesso fu per la testa del signor Ugo Mestrini o di quel che ne restava. Il corpo giaceva a terra in un avanzo decomposto tanto avanzato che la puzza che era per l'aria, dopo essersi aperto, era indicibile. Era come se avessero buttato giù dalla finestra un morto al suo primo mesiversario. Era come se lo avessero tenuto in casa prima di gettarlo via.
Maria e la figlia Tina, con le tette schiacciate sul passamano, senza una lacrima, senza un grido di strazio. I loro folti e lunghi capelli ciondolavano oltre lo sguardo gonfio ed esse fissavano i resti dell'uomo come si guarda lo sciacquone dopo una colica. E lo stesso era anche il pensiero, se tutta quella merda si sarebbe potuta levar via con l'acqua.
Il corpo bolliva a terra e nemmeno un pianto, né una litania. Ci avrebbe pensato il cielo del quartiere a piangere per settimane.
Il viso di quella madonna intonso dentro la piccola teca di sampietrini, laccati come un bidè.
Quella mattina non uscí di casa, le amichette aspettavano al centro ma le mie cose mi aprivano in due la pancia e l'odore di ferro tra le cosce mi faceva trasalire come un incanto. Quell'odore di sangue tra le gambe e il povero, signor Ugo Mestrini che gocciava plasma sciolto in rigagnoli fino alle grate delle cantine.
Era come se il palazzo lo avesse rigettato come un dente marcio e poi ribevuto per ingrassare le radici di quel suo alto fusto di cemento e finestre. Senza terrazzi.
Ricordo ancora il vestitino di quel giorno, viola, gli stivali neri coi lacci a X e il trucco bianco spalmato sopra i miei occhioni blu. Ero carina e fu la prima volta che ne vidi uno, uno di quei morti insomma, la prima volta che accadde nel nostro condominio e nessuno ebbe più pace.
Quella mattina mi aspettavano al centro ed era la prima volta che sentivo quell'odore di sangue tra le gambe. E mamma mia mi chiuse in camera.
Quella mattina divenni donna. Tra quelle fottute coliche mi sentivo come un lavello intasato, ma ero donna.

- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è a terra, seduta e scosciata, in vestaglia bianca (un pò sporca) e capelli lisci a nascondere il viso -

Ricordo che pioveva da mesi, come se la città dovesse lavarsi colpe e annegare. Lungo la via, fuori i cancelli del Verano, le auto accollate su due file. Non esistevano più regole, ne scritte ne dette o urlate. Dentro una buca stavano calando Mario Onofri. La cassa semplice, due croci di ottone, come se una non fosse abbastanza e due giri di una grossa catena a serrare per sempre il poveraccio in un sonno che tardava ad arrivare. Anche quel giorno nessun pianto. Lo strazio, invece, era ritornare a casa con quella pioggia, le auto sul raccordo e la cena da scaldare.
Io ero lì con mamma. Aveva lavorato per il signor Mario tutta una vita, tutta la vita sua, prima di madre e poi di disperata. Era il mese di gennaio e aveva già perso il marito, mio padre, e non per quell'incubo che t'appesta casa e i bellissimi vestitini miei. Un semplice schianto sull'Aurelia. E faceva incazzare che mentre tutti morivano come bestie mio padre si fosse schiantato contro un camper in sosta. O forse era meglio così, che quel povero cristo si fosse risparmiato sto schifo... e quello a venire
Quel giorno, dopo il funerale, accompagnai mamma, quell'angelo di mamma mia per i negozi del quartiere. Cercava un corredino per mio fratello. Non voleva che chiudessimo in cassa anche lui con quella stessa povertà ostentata dalle figlie di Mario.
"nun se pó vede na cosa der genere fijia mia, na vita de fatiche e quer pover'omo stava coi fiori de du sordi, de du guorni forse e na cassa che manco li cani fijia mia"
Non disse altro quel giorno, ma mi rimase in testa quel "manco li cani".
Questo eravamo noi, niente altro che cani, bavosi ma sempre cani... E chi non era colpito da quella rabbia non viveva piú o si nascondeva in casa. C'era solo da augurarsi di sopravvivere ai figli per ricordarli qualche altro mese. Seppellirli vivi, prima che diventassero buste di frattaglie o bestie. E allora ci si preparava al fattaccio andando al mercato a cercare vestiti con cui crepare da principi.
Quella mattina, dopo Mario, salimmo su per il rione fino al mercato di via dei Gelsi. Lì mamma, davanti na bancarella di cravatte mi disse di che saremmo morti tutti, di che sarebbe crepata Roma. Quelle cravatte erano appese a fili come filetti a seccare e lì mi disse di quella brutta cosa, di quel male che colpiva tutti "li poveri e li ricchi" senza distinzione.
Lì mentre si faceva scivolare cravatte tra l'indice e il pollice per tastarne il tessuto, mi disse che non ci saremmo salvati e che prima di morire saremmo diventati bestie. Come quei cani dei giardinetti. Ricordo che non mi guardava nemmeno, fissa su quelle cazzo di cravatte mi stava dicendo che non avrei avuto il tempo di un amore, nemmeno il tempo di una scopata.

- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è seduta e scosciata sopra il davanzale della finestra (lato destro). In vestaglia bianca (più sporca) e capelli sul viso guarda fuori e ricorda -

Due finestre sopra quella dei Mestrini, all'ultimo piano, sotto una copertura in eternit, vi era una famiglia di cinesi. Sette piccoli nani gialli dagli occhi tirati ai lati e dal sorriso cavato e a tratti guasto. Da anni allevavano piccioni in delle gabbie un metro per un metro appese sotto alle finestre proprio dove gli altri tenevano i condizionatori. Avevano messo su un piccolo consorzio di volatili cresciuti a pane e scorze, piccoli sorci con le ali che poi vendevano ai connazionali del quartiere. Vi era un assiduo e silenzioso traffico per le scale di decine di omuncoli che salivano fino in su a comprare piccioni e uova.
Quelle gabbie stavano lì, appese, da anni, sempre piene come grappoli di acini con le piume.
Sembravano enormi sacche brulicanti che puzzavano e spruzzavano merda ai lati e lungo tutta la facciata del palazzo. E forse erano sette gli anni che durò quello spaccio di uccelli, fino a che una mattina, una bellissima mattina senza sole li vidi volare via. Era uno spettacolo. Vi erano tre gabbie, una per ogni finestra e per ognuna dei piccoli cinesi appesi sul davanzale che tiravano delle corde per aprirle. E quei piccioni si levavano in volo come nuvole bianche. Era come stare a una festa, una cresima o un battesimo. Come mille palloncini si levarono assieme, lasciarono quel cesso di palazzo e lasciarono Roma per i castelli.
Erano passate due settima da che rimasi rinchiusa in camera. Non mi lamentavo però. Mamma mia mi passava da mangiare la mattina presto, quando dormivo. Apriva la porta, poggiava i piatti a terra, vicino l'armadio e richiudeva a chiave la serratura e la porta con la catena. Ma non potevo lamentarmi, mamma mia cucinava bene. Come una cuoca dei ristoranti del centro.

- Si spegne lo spot e si riaccende. La bimba è seduta e scosciata sopra il davanzale della finestra (lato sinistro). In vestaglia bianca (sempre più sporca) e capelli sul viso guarda fuori e ricorda -

Non ricordo da quanto ormai ero chiusa in camera che una notte mi svegliai per il rumore di ferraglia proveniente dal palazzo davanti. Si sa che i cinesi non fanno nulla alla luce del sole, e al buio di quella notte scorsi poco e non potei capire. Avevano aperto quelle grosse gabbie dopo averle fissate con catene agli stipiti delle finestre e fu uno schifo. Al pigolio degli uccelli eravamo abituati cazzo. Ma questo era troppo.
Al mattino successivo il sole sembrò sorgere come sempre. Per cazzi suoi come al solito... e quel giorno le gabbie erano coperte da vestaglie bianche e dentro lievi latrati come se si fossero dedicati all'allevamento di un'altra specie di volatili. Si diceva fagiani o anche struzzi nani, ma soffiavano, sembravano rumori di sputi sfilati ai lati di becchi stretti.
Si alternarono i giorni con le notti, e quelle gabbie si gonfiavano come il lievito per il pane, come le torte con otto uova di mamma mia.
Non erano più gabbie ma grossi palloni imbustati, strappati dalle viti nei muri e tenuti sù solo per le catene agli stipiti delle finestre.
Erano tre ma fossero stati due potevano sembrare quei grossi coglioni pelosi fuori dai circhi. Forse di cavalli coi lustrini o di elefanti con papillon.
Che forse quei cazzi di cinesi avessero tirato su un allevamento di strane specie circensi?

- Si spegne lo spot e si riaccende. La bimba è appoggiata con la spalla al lato destro della finestra. In vestaglia bianca (sempre più sporca tra le cosce). Capelli sul viso guarda fuori e parla -

Ma quanto cazzo cacavano quei pallouccelli, così li chiamavo ormai. Versavano giù, lungo le pareti alte del palazzo, miliolitri di liquami come polpette al sugo. E i filoni di sterco ormai gocciavano come crema fino a un enorme pilone nel giardino dei Trombetta. Una gran cattedrale di escreti al centro di un giardino curato come un camposanto.
Ma il vento non mancava mai all'Alessandrino come se la municipale lo avesse assoldato per levar via la puzza dei morti del quartiere.
Me lo immagino... Signor Tiro Vento, della municipale, netturbino e soffio da ponente fino alla nettunense per spingere la puzza di Roma fino a Latina.
E un mattino il signor Tiro era più forte del solito più forte dei lacci con cui quei teli sulle gabbie celavano quei soffioni ormai grossi come tromboni sfiatati.
Quella mattina sopra quella cazzo di teca della madonna il vento tornò più forte, saliva in vortici lungo il rasato in calce della facciata, sfiorava stendini e panni stesi, girava girandole e carezzava pergole di buganville fino a sollevare dal basso, come una carezza, quelle sottovesti sopra le gabbie.

- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è al centro del palco, in vestaglia grigia (con rivoli di sporco dalle gambe) e capelli lisci e arruffati a nascondere il viso-

E fu allora che scoprì che dentro le gabbie quei cazzi di nani gialli avevano rinchiuso i ragazzini, ormai morti, gonfi come quei meloni che a fine estate si spaccano al sole e sanno d'acido. Erano sopravvissuti per giorni e erano loro a soffiare, erano le loro dita tra le maglie delle gabbie a raspare quelle vestaglie come becchi di quaglie. E ricordo che mi misi a urlare.
Urlai forte non come si fa allo stadio ma come si fa ai funerali per compiacenza, gridai e imprecai i santi e quella madonna che stava lì sotto al centro del giardino. Furono bestemmie e latrati, furono parole sacrileghe e leziose. Oltraggiai Dio e suo figlio con tutta l'aria che avevo in petto, raccolsi tutti i beati che ricordavo e li nominai ognuno, uno dietro l'altro, tra risa isteriche e accidenti.
Poi feci incetta dei santi che divisi in base al sesso, alla devozione, castità e nazionalità. Tutti assieme finirono, uno per uno a essere maledetti, ingiuriati, offesi, rinnegati... e corsi alla porta e pregai mamma invece, che mi aprisse e mi facesse uscire. Battevo le mani con forza e non mi apriva, grattavo così forte che mi saltarono le capsule smaltate dalle unghie e poi le unghie... Ma non mi apriva.
Chiamai mamma per ore, forse di più. Raspai la porta fino a che consumai la carne sulle dita e i graffi divennero un martellare incessante, regolare, sfiancante di ossa.

- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è seduta dietro una porta al centro del palco, in vestaglia grigia (con rivoli di sangue dalle gambe). Ha le unghie rotte e la mani perdono sangue. I capelli lisci e arruffati a nascondere il viso.-

Ormai non grattavo più ma lasciavo scivolare l'osso delle dita lungo le assi della porta, come se pettinassi lo stipite, come se quell'asse di legno fossero i lunghi capelli neri di mamma mia.
Caduta a terrà con le ginocchia, piangevo, ingoiavo lacrime, respiravo appena tanto che mi si era aperto il petto e mamma mia non sentiva.
Per giorni stetti li seduta dietro la porta, con la finestra davanti e quei palloni nella gabbie. Ormai erano grossi frutti canditi.
E si erano alternati i giorni, i pari con quelli dispari e nemmeno domenica mamma mia mi aprì. Nè quella domenica ne tutte quelle che non ricordai. Non vi furono giorni che non fossero uguali agli altri. Seduta a quella porta, dietro il profilo della finestra vi erano bellissimi fiori infestanti nati sopra quei cesti di carne macera. Erano di un viola intenso come certi miei vestitini. Mi feci forza sulle ossa e mi avvicinai alla finestra scortata da una luce rosata di un mattino come tanti. Mi affacciai e c'era quella consueta, piccola madonna color lavanda nella teca di mattoni in ceramica. Un buco di gazebo con il tetto in legno, fiori secchi sopra quel viso casto e stondato da carità cristiane. Era stata piazzata lì assieme ai palazzi, assieme al cancello e ai due soli alberi di pero ormai secchi in mezzo allo spazio condominiale. Vidi uno storno di piccioni tornare dai castelli, comparvero dall'ambrata e tenua luce di quell'alba, tanto bella da potermi far battere il cuore. Ne avessi avuto uno.
Scorsi lontano i fianchi del raccordo deserto e, prima di rimettere in fila i santi e maledirli, mi accorsi che ormai Roma era morta.

- Si spegne lo spot e si riaccende più in là e la bimba è al centro del palco. Ha la vestina lacera e sporca. Ha le unghie rotte e la mani perdono sangue. I capelli lisci e arruffati ai lati delle orecchie e ha un viso di un morto, al suo primo mesiversario -

sabato 6 agosto 2011

Strani Accadimenti

Si aprì la porta del bus e aiutò il fratello a salire. Piccolo gibboso, scuro più di lui. Aveva i capelli neri e lucidi poco irti sopra il cranio come un cagnetto bagnato e unto. Un giubbino di finta pelle scamosciata, pantaloni in panno retti su‘ da una cintura a strati di cartone pressato a colla. Un paio di scarpe modeste tanto da tenerlo sulla terra e in vita in modo decente. Il viso come un mocassino storto in una scatola con gli occhi come due occhielli per lacci. La porta a pressione si chiuse dietro ai due soffiando fuori quell’ultima aria fredda accodatasi e Mario seguì il fratello con lo sguardo, guidandolo tra i posti e la gente. Lo guardava da dietro scortandogli le spalle curve e muovendo la testa come se lo filoguidasse fino agli ultimi sedili caldi sopra il motore. Ripresero la corsa da piazza dell'Emporio verso l'osteria. Era perso il Secco, lo seguiva in autobus e tra i tavoli senza mai dire una parola che non fosse l’elenco dei piatti del giorno o un grazie incespicato. Non parlava e annuiva soltanto, anche quando qualche cliente danaroso chiedeva più di una pietanza scaldata.
“A Mà vojo tornà da mamma stasera”
“e come ce torneresti a casa stasera sentimo 'n pò?”
“in treno Mà, er t- treno fino a Rieti e poi u- un volo p'er il paesello”
“Da Rieti? perchè da Rieti mò?”
“perchè lì fanno e po- porpette cor brodo callo che vojo fà magnà a mamma”
“brodo callo cò e porpette? sai da quann'è che nun se trova carne in giro? e sai chi ce trovi a casa fratè? De sicuro l'ossa de mamma e a sera quei vermi 'nfami”
Non dovette nemmeno voltarsi a guardarlo. Era certo che quel suo farneticare fosse l'ultimo gruzzolo di parole di tutto un anno. L’ultima volta che lo sentì blaterare fu quando, riuscì a comprare delle bistecche di manzo e sedani gialli al mercato rionale nel settembre del 2011, l'ultima volta. Prima dell'epidemia.
Era certo che i suoi discorsi sarebbero decantati dopo un pò come il vino dei castelli sciacquato, come il siero degli angeli in nuvole d’ovatta.
La prima loro fermata e la porta affianco si spalancò al civico 32 su Lungotevere Aventino. Il mercato stava dietro l’obliteratrice automatica, alle spalle della pensilina rinforzata. Dopo la grande pestilenza era raro trovare verdure verdi in cassetta, impensabile carni che non fossero riccioli nerastri attaccati ai nervi di grandi anche di vacche. Questo mercato era famoso perché degli ingrossi clandestini rifornivano alcuni chioschi di pesce di un azzurro macero e di teste d'orate per zuppe. Il fatto che fossimo alla frutta si capiva non dal colore delle banane peste come le braccia dei tossici sotto ai ponti ma dal fatto che non c’erano a terra scarti di verdure, bucce o scaglie secche di baccalà. La notte quei mostri ripulivano tutto, ogni cosa, smontavano auto e mangiavano ogni resto e porcheria. Sarebbe stato difficile riprendersi da quel fosso comune, ammassati come esseri vivi pronti a seccare. Come quelle stuoie di baccalà in salsa di sale.

La porta sfiatò olio e chiuse quello spettacolo mentre il motore sotto al culo dei due, tossendo gasolio agricolo in enormi fumate, arrancò per la via.
L'autobus era un vecchio Menarini rinforzato con spranghe ai finestrini. Sembrava un bus per cercerati ma era sicuro per i giri notturni.
“A Mà, gua- guardame nell' occhi”
e la cosa era davvero difficile visto che quelle due asole nero pece miravano, da sempre, le due sponde opposte del Tevere.
“guardame e dimme che se po fà che sta- stasera posso arivà a casa de mamma pè pè cena cò ee po- porpette e il brodo caaalloo callo, Mà”
La risata di Mario era ovvia anche se soffocata per la decenza di non mostrare tanto sarcasmo davanti a quel viso schiacciato con dentro un cervello che era la sala da ballo di falene e coccinelle.
“come credi de potè arrivà n'tempo pè cena a Se?”
“Nun dì cazzate! L'urtimi aerei che sò partiti da Fiumicino annaveno ancora a cherosene”
“Mo te ricordi che nun ce sta artro che gasolio pè trattori? che fai? Ce pisci dentro a quei tromboni? e magara aspetti pure che l'hostess te spigneno fino ar cielo?
”Ma poi scusa eh, come cazzo ciarivi tu a Rieti? vedi che machine ce stanno 'ngiro? Testaccio è 'n cesso, tutta Roma 'n cesso pieno de poracci de giorno e de morti la notte. E li treni?“
Mario stese i baffi ai lati in una smorfia che sapeva di isterico, di acido, come la mousse di latte di gatta che avrebbero offerto agli ultimi clienti prima di sera.
”i treni poi! ma nun famme ride fratè!“
beccando la testa del Secco con le dita.
”oramai viaggeno solo li cassoni e quelli pè la gente sò parcheggiati a Ostiense e Tibburtina“
Quelle parole erano cadute in faccia al Secco come gocce in un pantano molle.
Come l'ultimo angelus del Papa.
Il bus, da un pò, faceva una strada diversa, più lunga. Passava davanti a degli enormi palazzoni di fianco al Tevere. Dieci piani a portone per un’enorme struttura rinascimentale che arrivava dal Clivio di Rocca Savella fino a via della Greca. Le cose erano cambiate. Le grate cingevano i balconi, portoni in laminato pesante e i tetti avevano fili di cinta in metallo con antenne che spuntavano storte. I primi piani, avevano carrucole per portar sù il possibile senza che mai si lasciassero incustoditi gli alloggi. Ci si doveva guardare da una nuova generazione di ladri. I ladri di case. Erano capaci di svuotarti l’appartamento e mollarti con la credenza e il divano davanti strada in meno di un’ora. Era per questo che per le vie c’era sempre gente spaiata. Uno in giro a raccattare cibo e lavoro. Uno a sorvegliare casa.
Al ristorante mai più cene romantiche, matrimoni o feste di compleanno.
Del resto ogni anno passato era un anno in cui si era sopravvissuti, un anno un cui si era dato fondo a tutto ciò che la città poteva dare.
”senti Mà e se prenno uno di quei pa- pattini co e rotelle?“
Era tornato ancora a quell’idea folle guardando un enorme cartellone che pubblicizzava una catena di market con dei carrelli vuoti.
Mise una mano sul braccio di Mario come se temesse una reazione. Che non ci fù.
”si Mariè visto che nun ce sta ke- kerosene, benzina o treni p- p- potrei spigneme cò sta gamba sana fino ar paese, no?. Te ricordi Mariè che da ra- ragazzino riuscivo a sfonnà le porte con sta gamba? è ancora bo- booona sà? senti senti 'n pò quant’è tosta, pare na sfranga!“
Prese la mano di Mario e la posò sul quadricipite secco.
”è osso questo a Sè e te nun te reggi 'n piedi manco tra li tavoli dell'osteria, 'ndo cazzo vòi annà!“
”me sa che stasera, come tutte e sere te magni li scarti dietro al locale e te tocca pure de divide er cuscino cò me“
”Anzi sai che pòi fà? chiedi 'n pò all’autista si te da 'no strappo fino ar paesello der cazzo, o magari pòi mannà 'n saluto a mamma cor microfono. Ah e ricorda de mannalle puro li saluti mia, li bacetti der pupo piccolo le dichi... li bacetti de li mortacci tua che stasera riprenneranno a girà pè Roma, sti cani, morti 'n fami!“
Ormai parlava senza voltarsi. Quasi stanco di ascoltarlo ma scosso anche lui da quella stessa voglia di andare via.
Ma non avrebbero potuto in tempi migliori. Era impensabile ora che tutto il mondo era fermo e immobile. Scalciante appena, prima del tracollo. Come un enorme obolo spento nello spazio profondo.
Un mondo diviso tra il giorno e la notte, il giorno dei vivi e la notte dei morti.
Il bus percorreva gli ultimi tratti del lungotevere Aventino. La strada, come molte in città, era asfaltata al risparmio, due rivoli di catrame come rotaie e ai lati e in mezzo sterpaglie e sabbia. Gli autobus dovevano percorrere quelle strisce nere per non smontarsi dentro le voragini che la pioggia apriva ogni volta.
Fuori dai finestrini ingabbiati l'Isola Tiberina e lo spettacolo orrendo come ogni mattina. Il fiume si apriva in due come lacero e in punta a quel piccolo stralcio di terra, forconi e reti a raccogliere i morti della notte. Lì si ammassavano gonfi e nudi, infilzati e aperti. File di cavi metallici tenevano griglie per la raccolta dei corpi. Vi erano tre livelli di grate che filtravano via via le acque e le ripulivano dallo spettacolo immondo che non doveva raggiungere i cortili dei ricchi subito dopo l'isola. L'ospedale era stato sfollato ed era diventato la gendarmeria del primo municipio. Lì, nei saloni più alti, alloggiava il nuovo governo.
Roma, prima del disfacimento, aveva 19 circoscrizioni comunali, ognuna dipendente dal Campidoglio. In seguito al fermento di diffusa autogestione le circoscrizioni erano diventate 234.

Il Secco con le mani ad arco sui vetri del bus seguiva un anziano che portava su un carretto due corpi rinsecchiti fino a uno di quegli inceneritori chimici sparsi per la città.
”sai che ce po- potrei annà a passaggi?“
stava continuando a tirar fuori altra pappetta di parole quando Mario gli puntò l’angolo del gomito sulla faccia.
Voleva che il suo silenzio durasse almeno le ultime 2 fermate.
”si a Mà potr.....“
E partì quell’angolo d’osso e tendini per dove le parole davano fiato a alle cazzate. Mario vide quella testa sbattere forte sulla vetrata posteriore. Un rumore cupo, vuoto e quel cranio malforme che rinculava come un pungiball alle giostre. Non era ancora tornato a sbattere sul gomito che già Mario fu assalito da un dispiacere fraterno che invece di sedare la sua rabbia la caricò come una grossa molla.
Era come se il provare afflizione, per quel cazzotto sul muso del fratello, nutrisse in lui una disperazione cupa che lo tirava giù in uno sprofondo fatto di nervi e scatti di bestia. Si girò senza scollare il culo e costrinse la testa del poveretto nell’angolo e il vetro. Con la sinistra teneva il viso tra il pollice e le altre dita e con la destra puntava gli occhi. Quei cazzi di occhi sempre accesi sulla vita di entrambi. Sempre troppo accorti lui che era un povero deficiente. Lui che non poteva permetterselo.
Iniziò a piantare dei colpi secchi proprio sopra quei bulbi aperti e increduli. Pareva li contasse per spartirli in numero pari per ogni apertura sbarrata in cerca di grazia. Il Secco poteva urlare appena stretta com’era la sua bocca tra le dita del fratello più giovane. E questi continuò a bussare su quello sguardo con la forza e la rabbia che aveva in corpo, fino a sentire le ossa sue stanche e quelle del fratello peste a sufficienza. Si fermò e con lui gli sputacchi di rabbia sopra il viso dell’altro. Si fermò aprendo la bocca per tornare a respirare e lasciando che l’altra, sfilata dalle sue dita, potesse urlare finalmente. E furono urla di bimbo, di cane dalla coda mozzata, urla stupide anche quelle. Urla lacere come i suoi occhi. Mario si girò per tornare a fissare la strada e quei morti appesi tra le due file di sedili. Nessuna esitazione o smorfia sul suo viso intonzo. Il Secco, invece, si sollevò da quell’angolo come un elastico. Rimise in un attimo una delle chiappe sul sedile e quando il busto si allineò al bacino le urla presero respiro. Divennero più lancinanti e disperate. La bocca aperta storceva tutto attorno. Gli occhi gonfi di lacrime e sangue, la punta del mento lontana da ogni cosa che fossero pensieri sereni in quel finire del viaggio sul Lungotevere.
Le mani consegnate alle ginocchia e tutto il busto in un’altalena che sembrava una febbrile preghiera.
Il giovane fratello si stese appena per prenotare la fermata mentre lo sguardo pesto dell’altro seguiva quella mano arrossata in punta facendo scemare a fatica le grida e il pianto, piano piano.
Restarono solo singhiozzi su quel viso dolcissimo.
Mario si alzò, posò lo sguardo sulla testa di un passeggero che tirava su il colletto, forse per paura e si girò per guardare il fratello. Gli prese la mano con premura e scesero davanti all'osteria.
Il bus li salutò sul marciapiede sbuffando fumo e polvere. Mario lo accompagnò con due dita sul fianco fino all’entrata. Gli rammentò lo scalino e lo vide sparire dentro, dopo una lieve spinta alle spalle, tra i tavoli da sistemare.
Lui prima di entrare raccolse due tovaglie da sopra un filo di nylon, teso tra gli infissi della vetrina.
Levò la posta dalla cassetta e su un volantino lesse del reclutamento per la resistenza romana.
Lasciò per un attimo lo sguardo fuori dalla porta per scorgere un gatto che dondolante e gattone attraversava la strada fino al parco. Sorrise appena, pensando che non ci sarebbe stata mousse da servire quel giorno... e entrò. Prima che i morti, come ogni sera, invadessero Roma.

lunedì 18 luglio 2011

la fuga

Lasciò cadere il cappotto e senza guardarlo in faccia biascicò qualcosa, pergiunta sottovoce
“ cosa hai fregnato?” disse LD
“ sputa qualche gruzzolo di merda che hai tra i denti e le parole e fà sentire anche me” urlò LD con la riserva di coraggio di quel mese.
“ devi andar via, ho deciso, abbiamo deciso! ” riuscì a gridare Maxim senza guardarlo negli occhi per non pentirsi anche questa volta.
“ si! devi lasciare questa casa cazzooo ” urlò la piccola e panciuta pin-up tenendo l’urlo premuto su quella ultima “o”, come se avesse due o tre fiati o una cospicua esperienza a trattenerlo a lungo in gola.
Ld posò la mano armata di sigaretta leccata sul rossetto lavanda della piccola sgualdrina di lettere elettriche, stese il collo quanto potè quella sera e senza disincastrare la gonfia e lurida canotta dal bordo del tavolo accennò una distrofica scenata.
Volò di tutto, sputacchi, bestemmie, pelle vecchia dai baffi persino pezzi di cena della sera prima ... e ancora bestemmie.
Era come se avesse fatto il giro del sacrato, attraversato le navate, di corsa sotto ai baldacchi, un lieve inchino al patrono e poi giù inveendo contro tutti i santi che ricordava la chiesa, in fondo alla via, contenesse.
Maxim tremava, il viso e con esso il collo e le spalle, illuminata dal lampadario basso sopra il tavolo da pranzo in una nuvola di gocce, scaglie e insulti. Ma non cedette questa volta.
“ devi andar via e con te porta tutte le tue cose ” disse Maxim con una forza nuova o come chi è alla fine di una vita.
Ci fu un attimo di silenzio in casa, come se tutti e tre aspettassero un qualcosa che cambiasse le loro esistenze.
Ld si alzò e con lui anche la sedia attacata per la spalliera a una tasca dei pantaloni. Poi cadde a terra e questo rese fortuitamente il gesto più plateale.
Ma le due non sembrarono turbate ricordando che per attacchi di colite morbida Ld era capace di gesti atletici maggiori.
“portati via le tue cose!” disse ancora Maxim facendosi scudo con la corpulenta figlia.
E poi si interruppe.
Quell’attimo di silenzio era come se avesse caricato l’aria e fatto spazio in una lite in cui ora spettava a Ld la mossa migliore.
Non si preoccupò della sedia e anzi con stizza la scaraventò col piede fino alla base del forno. Si mosse come un rapper coi calzoni calati verso le due donne che si aprirono ai lati come gli invitati a una cerimonia... la cerimonia di LD a cui toccava il sermone.
Lui, con il collo incassato tra le spalle e la testa che contava i lastroni di cotto per terra, si diresse al piano di sopra contando 4 quadrati e una listella di marmo rosa.
Salendo prese respiro per l’inerpicata e per il resto dei farfugli e scazzi che avrebbe detto ad alta voce.
“ vi pentirete di non avermi tra i piedi stronze” urlò sulla prima rampa.
“ e quando non ci sarò e non saprete a chi additare colpe capirete cosa fare delle vostre fottute dita” disse alzando il medio per poi portarselo sotto al cavallo con un giro tondo e largo quanto il suo culo.
Sulla seconda rampa Ld avrebbe iniziato il carico e così fece mettendosi sotto braccio una vecchia coppa del circolo nautico, una sorta di stele nera lucida che il caso volle fosse anche del 2001. Ma erano mesi che programmava una simile fuga e quell’oggetto sarebbe servito.
Prese una vecchia valigia rigida da sopra l’armadio del corridoio e andò subito in bagno. In quella casa non aveva mai avuto un guardaroba e i suoi indumenti facevano una breve spola dal buco della lavratrice a molle fino a sopra il cesto di vimini dei panni sporchi. Solo quella sera, dopo otto anni lì dentro, si rese conto del perchè i suoi indumenti puzzassero sempre, comunque, anche se lindi.
Capì che da quel cesto intestato, su cui c’erano le sue iniziali, salivano gli effluvi maleodoranti di intere giornate sprecate fin sopra al mucchio di panni puliti e mai piegati. Poteva capire di non esser mai stato inserito nel quadretto familiare dal fatto che la loro cesta blu mare con fiori e pescetti in decoupage era a debita distanza dalla sua.
Mise la valigia sopra la tazza del cesso e senza pensare, lo aveva fatto tante altre vote ormai, divise quello spazio in due con la stele dal gambo dorato. Nel lato destro infilò con forza le cose pulite. Prese una busta di plastica dall’armadietto, la stese sopra come un lenzuolo da coroner e mise sul secondo strato i panni sporchi presi dentro la cesta. Era quasi orgoglioso di una simile attenzione per i suoi stracci. Poi si diresse verso lo scrigno marino certo di non trovarci cefali ma vestitini usati. Inizio a ridacchiare di gusto. Infilò la mano piegando il viso di lato e verso l’alto come si fa quando si raccolgono lumache in mare, per non affogare e, tastando, raccolse il pizzo e i merletti ben sapendo che era tutta roba della sua adorata figliastra. Nella breve parabola che quelle mutandine facevano dalla cesta alla valigia, odorava l’aria come un setter pregustando le sue intimità lontano da quella stronzetta che sarebbe andata in giro, per giorni, a carne e jeans.
Aveva riempito ormai ogni angolo, premuto con l’osso delle nocche per fare altro spazio e prese il dentifricio strozzato e storto, il suo spazzolino, quello di Maxim lo passò sotto le ascelle e lo ripose, quello di Rae fece la via più bassa sotto alla patta e lo rimise dov’era facendo attenzione al verso. Poi prese il lucido per le scarpe e il colorante spray per la pelata, toccò, quindi, alle lamette. Chiuse la valigia salendoci sopra col ginocchio, pensado che quella potesse esser la faccia della mogliastra e disegnò un rettangolo, sopra al cesso, con la zip tra le dita. Se la sbattè sulle gambe e uscì fuori. Attraversò il corridoio raccatando dalla libreria il libro “1000 modi x pulire mitili”, la prima rampa di scale a scendere e raccolse, da una mensola, una bolla di vetro con dentro una nave e la neve. La seconda rampa e giù al piano delle vedove, dentro all’ingresso che gli era sembrato l’ultima camera di metallo prima del boccaporto.
Le due lo scorsero col nervo degli occhi trafelato e appeso a quel bagaglio e continuando il poker rimarcarono la loro totale indifferenza chiamandosi il palo. Lui parve come in un quadretto, un piccolo omino e la sua vita in valigia, incorniciato dallo stipite della porta della cucina, la luce del piano di sopra che colorava d’ocra l’ingresso e in fondo, nel profondo, il salotto con due sofà stanchi.
All’accuso di picche, Ld
“ vi porterò con me e finirete la vostra lurida vita prima della prossima mano!”
non sapeva il vero signifcato di quelle parole ma stavano bene in quel contesto, in quell’angolo davanti all’uscita.
Ld si chiuse la porta alle spalle.
Sulla veranda due sedie e un tavolino di tavole. Spinse a terra con le dita due piccoli cactus interrati in terrine di cene cinesi, strappò con forza lo scaccia spiriti appeso. Si infilò in tasca una scatola di cerini e nel’altra una chiave da 12. Scese i tre scalini e toccò terra finalmente. Poggiò la valigia e la trascinò sopra il vialetto di gladioli di Maxim. Nella tasca di dietro infilò il finto osso di Bobby quando, piegandosi, vide la canna dell’acqua. L’alzò e con essa il fogliame di un vecchio pioppo, si fermò, la tirò con forza fino a tenderla all’altro capo. La tenne in mano, soppesandola e fu allora che capì il senso di quelle sue ultime parole. Si passò la canna sulla spalla destra si girò e scese per il vialetto. Quel tubo di plastica si svolse vicino alla fontana murata alla casa. Era quasi finito il vialetto e si era svolta per tre giri.
LD allo strappo sembrò barcollare indietro quando dal lato opposto della tubo un lieve scossone alle fodamenta e le pareti di legno, tutte, se ne vennero apresso a lui come il tendone di un circo, come un grande telo con sopra la stamapa a caldo di una casa con due stronze dentro. Prese per la Glenwood Dr, verso il molo, tra gli alberi e la luce dei lampioni, con la valigia sulle gambe e un grosso sacco al guinzaglio di una canna d’acqua.

Sciacca Salvatore

Scritta a lettere fitte e minute lungo una striscia sottile di carta rollata, in mezzo a mille altre sul tavolo, quella che segue è la lista di ingredienti della cena di due sere fa. La sera in cui cercai di abbonirmi il maresciallo Sciacca Salvatore: - un kg di scilatelli a doppio avvolgimento in farina di grano duro - 4 litri di ragù calabrese con tocchi di carne attaccata all’osso - 2 enormi bistecche sollazzate da patate della Sila tra piloni di enormi cornioli rossi e roventi - 5 salsicce di grosso calibro che avrebbero rallegrato le notti di ogni femmina in paese - un fiasco di vino d’uva rossa misto ad altro d’uva brunè con pizzico di sambuca - pane in cassetta, di due liste da tre che era anche piena di pitte e filoni. Erano le 20:34 di una sera nello sprofondo. Ci guardavano tra il collo morello del fiasco e la bottiglia di lavatura d’acqua in plastica che nessuno avrebbe toccato. L’avrei dovuto stordire col vino e quasi ucciderlo coi grassi per poi farmi dire a che punto erano le indagini. Aveva dei baffi densi e corpulenti che scendevano in basso a due enormi narici, giardini pensili di peli che avevano radici sotto all’amigdala. Ai lati di quei mazzi fibrosi e neri come scarpe due enormi palle di pelle per guance, tanto tese da strizzare gli occhietti impercettivi in lacrime stillate sotto alle arcate di una fronte spaziosa e lucida, grassa fin dietro alle spalle. Quella sera aveva il cappello d’ordinanza e non vidi altro. Aggiungo anche che il maresciallo era una fogna d’uomo, un prodigio della natura. Una discarica il cui cielo si era chiuso nel 37, sotto a quel pezzo di stoffa con su la fiamma dell’arma. Sembrava che decine di secoli di evoluzione avessero dato vita al suo corpo. In paese si diceva che al posto del piloro avesse degli ingranaggi servoassistiti che riuscivano a sminuzzare qualsiasi cosa si trovasse in carte da alimenti. Alcune vecchie trascrizioni negli atti della caserma, riportavano che le pareti del suo addome erano a doppio strato antiperforamento con camera d’aria negli interstizi. Come i giubbotti d’ordinanza o... che forse ne avesse ingoiato uno e fatto proprio come si annettono a se i funghi ai bordi delle latrine? Il tessuto sarebbe stato composto da un particolare collagene resistente agli acidi con piccole ghiandole di secrezione autolubrificanti; sembra fossero state capaci di secernere un liquido antiacido e antibatterico. Il vantaggio di un simile sistema era indiscutibile, ma il liquido aveva un odore acre, forte e comportava enormi e nebulose flatulenze. Quella sera, però, avevo allestito sotto al suo culo una sedia fonoassorbente in legno con due strati di cucini, uno in gomma piuma e uno in piume di gallo morto per sbaglio. Comunque... L’intero sacco digerente era trattenuto, tra le pareti del crasso e della pleura, mediante cavi antistrappo con frizione antisaltellamento. I cavi si attaccavano in modo vicinale a piccole placche di titanio perforato e alleggerito e in modo distale a ganci di 3 pollici con trattamento antiruggine. Il sistema basculante permetteva al maresciallo Sciacca Salvatore di muoversi con perfetta e inusita leggerezza senza che il suo enorme ventre si strappasse a terra. Ma la perfezione era nella parte bassa dei suoi meccanismi. Anche i due appuntati Venturi e Scalia ne erano a conoscenza. La valvola che collegava lo stomaco al crasso era dotata dello stesso ingranaggio del piloro, ma questa volta i dentini erano più piccoli, minuti e serrati per sminuzzare il cibo ancora più efficacemente e trasformarlo in merda a passo fine 0.08 micron. Tanto fine che poteva sembrare pappetta di neonati... o di neonata se si scambiavano gli acini d’uva a piccoli occhietti neri. Dopo questo secondo ingranaggio l’ultimo elemento dello stomaco era un minuscolo sensore a forma di ventre di papera che aveva lo scopo di fornire miliardi di informazioni al secondo a quel piccolo cervello che stava sotto la pelata. Informazioni che riguardavano la temperatura, la consistenza, il passo, la densità, l’olezzo, la tensione superficiale (perchè la schiumetta aveva la sua importanza), la grana, il colore e altre decine di variabili dell’escreto. Questo sensore teneva sotto controllo lo stato dell’ammasso putrescente che doveva, ogni volta, inondare il crasso e se una qualsiasi di queste variabili era fuori standard - la commissione di controllo risiede ancora a Lamezia - la valvola mandava delle piccole scariche elettriche sulle placche motrici dell’intestino sotto forma di pirofosfato di sodio spremendo quest’ultimo come un grosso culo in mano ad un calabrese arrapato; a questo punto l’impasto risaliva in su per lo stomaco per finire in bocca del maresciallo Sciacca Salvatore che riiniziava il ciclo. Se vi capitava di vedere il maresciallo Sciacca Salvatore masticare di continuo, ruminare come una vacca al pascolo davanti alla camionetta non era perchè lo stato avesse fornito l’arma di auricolari ma per via della commissione di Lamezia che, a quei tempi, non raggiungeva mai il quorum. Erano le 20:45 e avrei dovuto stordirlo col vino e quasi ucciderlo coi grassi per farmi dire di Tano e dell’altro mio fratello Toni con la “i”, ma il maresciallo Sciacca Salvatore quella sciagurata sera sembrava avesse il bolo in bocca. Sembrava ruminasse ancora per una merenda in trecce e provole al pascolo di don Nino. “Pinu, nun manju stasira, mi sentu... mmhh.. comu dira... nu pocu ushatu” “ senti, tocca, toccame u codhu... mò mò i provuli marrivanu ari ricchi” “dimmi pecchì mi hacisti veniri?” “u sai ca...” “chi cazzu fai Pi......” Il fumo bianco, caldo, crespato di piombo salì verso il cono di luce del lampdario tra il fiasco di vino e l’acqua, sopra quei piatti, al centro di una cucina buia senza finestre, sotto sette metri di terra, tra le assi di una vecchia stalla, in bocca a un lungo cunicolo che portava al paese.

sul terrazzo

Ciò che riusciva a scorgere oltre il cornicione, oltre quel muro del terrazzo, erano solo i vapori che salivano per sifoni lucenti e intrecciati a budella da sopra il tetto dell’ospedale. Dietro essi, forse, avrebbe dato retta a qual- che collina e casa, a qualche nuvola e poi al cielo di Roma. Immobile come il suo braccio. Immobile come tutto il resto del corpo su quell’angolo del lavatoio, steso in un piccolo spazio con le spalle incassate tra la grondaia del tetto e il tubo di piombo degli scarichi. Da dietro il grosso oblò di plastica, sulla sala dei condomini, sembrava quasi un angelo con quelle ali in trecce metalliche che salivano in alto. Un braccio inerme e fasciato, la pancia della mano in alto e le dita piegate come una supplica, come un mendicante di speranze ormai morte tre le pieghe degli occhi. Occhi fissi su una vasca blu tra le gambe. Fasciata in pantaloni di fustagno maceri e sporchi. Una tinozza di plastica riempita fino al margine alto di terra concimata a basilico, terra smossa mesi addietro con al centro un piccolo troncone secco senza vita. Aveva il capo pesante, di lato, stondato da recenti fasciature, macchiato di mercurio rosso come la testa di un’enorme radicchio guasto. Avevano affittato per lui un piccolo monolocale all’ulti- mo piano di quel palazzo, proprio davanti al San Camillo, proprio davanti a quegli sbuffi bianchi dei suoi tetti. Sarebbe servito averlo vicino per qualche firma o per portarlo di peso in sala o, peggio, per... Ma lui quella stanza la occupava solo di notte, solo quando un intero giorno di sole o pioggia se lo consumava, immobile, con la vasca tra le gambe, sopra quel terrazzo. Col naso in sù come un contadino che fiutava il temporale lontano. Forse aspettando le ultime esalazioni di Lautan tra i vapori sopra i tetti. “ingegnè come va oggi? me parete un tantino meglio?” era Clelia, bionda fino a qualche mese prima, secca in vita e larga altrove. Sempre stretta in un grembiulino da commessa delle carni, azzurro a strisce bianche che andavano e venivano per dove quel suo corpo si riempiva di forme tonde. Una quarta abbondate, certamente , di un seno bello e intonso su cui mai uomo posò mano. Forse. Aveva i capelli neri in una linea larga al centro della testa, neri come i rattoppi di catrame tut- t’attorno. Dalle radici corvino si dimenavano pezzumi di biondi cordoni ingrassati fin poco sopra le spalle. Il viso inutile a tratti, labbra talmente secche che pareva tagliassero le parole e due occhi bui, incassati dentro al viso come le buche agli angoli di un biliardo. Il filotto lo facevi unendo i nei sulla linea del naso e tra la fronte. “ngegnè vò portato na cotoletta e na mela” disse sistemandogli il collo del maglione, tirandolo in basso fin quasi allo sterno per favorirne la prima abbronzatura. “ve state a fà bello pè st’estate, come un tizzone cò gli occhi blu” aggiunse come se anche in quella triste circostanza potesse provare a cercar marito. Lui girò il capo solo per prendere il piatto che poggiò tra il bordo blu della vasca e l’interno coscia. Clelia veniva a trovarlo non come la sua affittacamere, ma per quella carità cristiana che su quel seno mai ciucciato, tra l’areola sinistra e il crocifisso, si incarnava come una gemma d’ambra di spine e dedizione. Clelia era anche addetta a dare notizie a Fausto Linate, il primario di ostetricia del vicino ospedale. Era lui, il vecchio amico dell’ingegnere, il compagno di classe al liceo, l’astuto capo istituto che gli sfilava le ragazze maturate, dopo i 16, nelle classi inferiori. Fausto non aveva mai avuto assensi scritti dall’amico ma tramite il direttore del nosocomio, in combutta con lui in strane vittorie di appalti per il nuovo lato ovest, era riuscito ad allungare di tre settimane quel filo tenue di speranza, piatto come l’elettroencefalogramma delle due poveracce. Fausto conosceva molto bene la moglie e la piccola Elisa. Conosceva molto bene lei nel profondo, conosce- va i suoi odori intimi, le sue parole romantiche, i suoi vezzi, i suoi vizi e quelle poche virtù che si spartiva col marito. Elisa lo chiamava zio e lui ne era orgoglioso. Lui con alle spalle mezza vita passata a scoparsi hostess ai congressi, a rifiutare le amiche di famiglia e le giovani avanguardie mediche. Clelia, stamattina, aveva chiamato il dottore dicendo che l’ingegnere si era mosso un po’. Aveva segnato una parte di terra vicino al lato della vasca dove posava, senza vita, il braccio. Aveva scritto qualcosa, in quel piccolo lembo di terra concimata sul terrazzo dei lavatoi, sopra il tetto del civico 24, all’incrocio con l’ospedale, nel quartiere nord di una Roma che sbolliva un altro giorno di traffico e malelingue sui volanti. “dottò correte, ha sbiascicato quarche parola ma non ho capito n’cazzo de che ha scritto nella vasca” disse Clelia al cellulare. “s’è messo a fà i disegnini in sta cazzo de vasca tra e gambe, dottò, correte prima che cancella tutto” urlò con il fiato che aveva in gola mentre con la mano sul fianco scrutava dall’alto il piano del reparto di terapia intensiva e l’odore del bucato fresco non le ammorbidiva affatto i pensieri tristi. Fausto si fece le otto rampe in un boccone, imboccava i gradini due a due, li divorava con l’ansia che gli faceva da umettante nella bocca e che rendeva quella giornata, che poteva essere un dramma, l’ultimo pasto dolente sotto ai denti. Salì le scale degli appartamenti e si fermò come per prender fiato. Ma si fermò solo per immaginare come, l’amico, avrebbe potuto scrivere sulla terra quelle parole che si aspettava da settimane. Sarebbero state leggibili tanto da liberare la sua coscienza o sarebbero state oggetto di interpretazione da parte sua e di Clelia? Si sarebbero messi a sindacare su ciò che quelle lettere o parole significassero, attorno a quel piantone secco nella terra?. E se lui si fosse semplicemente alzato da quell’angolo e avesse parlato? Mise il piede su un gradino come per salire ma in realtà sapeva quanto l’amico fosse testardo e duro nelle sue volontà di nascondersi sotto al mondo. Come quando lo trovava steso a terra nello stanzino del bidello a farsi d’erba. Sapeva quanto lui fosse capace a esacerbare quei suoi torpori che lo avevano allontanato dalla moglie. Salì il resto delle scale con lo sgomento di chi avrebbe dovuto decidere per suo conto. Chiudendo una storia finita male con quello schianto sul raccordo che si è inghiottito tutto, lasciando al fondo un cuore, un cuore malato e cattivo. Aprì la porta in legno del ballatoio e poi quella in metallo sopra il tetto, scostò dal viso e dai capelli di nylon le tende a costine di cellofan trasparente e lo vide a terra, in quel suo angolo, tra due piatti di plastica e quella vasca. Faceva rabbia per come si era ridotto, come un cane raccolto per strada, con quel po’ di acqua sporca dentro a un bicchiere di vetro a palle colorate e quei mozziconi sbilenchi di fettina panata e le bucce di mela. Si avvicinò accucciandosi con premura, spostando Clelia con forza e ringraziandola per il pasto. “puoi andare Clelia, ci penso io a lui” disse balbettando. “dottò tiramolo su almeno” rispose Clelia con la sua solita premura. “no, vai pure e lasciami solo con lui per un po’” Sapeva quanto fosse sfiancante dover aspettare le sue risposte senza fiato, quelle parole che non prende- vano corpo perché vuote di ogni suono e significato. Ma forse ora aveva scritto sulla terra e sarebbe stato più facile spegnere tutto. L’ansia aveva inghiottito i suoi occhi, li aveva succhiati dentro al cranio così in fondo che per guardare sopra quella vasca le pupille dovevano aggrapparsi ai bordi ossuti degli zigomi. Chiuse per un attimo le palpebre e i pensieri tutti, come per prender fiato con la visione. Li aprì e vide che sotto al moncone della vecchia pianta aveva scritto qualcosa che lo scagionava anche quel giorno. L’amico gli aveva regalato ancora un giorno, gli aveva concesso ancora ore da uomo e non da omicida. Si alzò senza voltarsi, senza guardarlo o sorridergli, si alzò senza toccarlo o spiargli lo sguardo. Si lasciò carezzare il viso dal bucato bianco, candito dal profumo di una Roma bellissima quel giorno e si fermò a guardare a sud oltre il cornicione. Il cielo vivo sopra alle cupole e ai giardini. “lasciale andare”, “lasciale andare” aveva letto ... e dovette pescare in quel suo profondo e torbido odio per la vita, lui medico di nascituri, per poter intendere, tra quelle parole scritte a terra dall’amico, la supplica sua a non fottersi ancora la moglie e la famiglia. E non altro. Non lo guardò neanche e ridiscese le scale ticchettando con l’indice sul passamano di metallo col ritmo di quei due cuori ancora appesi.

mercoledì 15 aprile 2009

........

Mi si ruppe lo sguardo
infranto come il vetro.
Il parallasse sopra il cervello
si piegò come un uncino
e quando la polvere delle sue scarpe
si battè a terra come la pioggia,
io, cauto,
da dietro il vecchietto che mi passò veloce,
raccolsi da terra il senso del vuoto
e l'agire impudente.
Bruciava come una lama tagliente
e puzzava di mille corpi o più.

martedì 7 aprile 2009

...

Il colore bruno si aprì per gradi inconsueti,
una cerniera di merletti uncinati
si stese ai piedi di setosi fili
e piccoli e torciuti fusi
si alzarono come il delirio
piegato in sù.
Tutto attorno ovatte di colori e orlate pelli.